Traduzione dal latino della
lettera di Armand de Châteauroux all'eccellentissimo Padre Juan Pérez
a cura di Mariano Tomatis
Prefazione
"La cosa più grande dalla Creazione del mondo, eccetto l'incarnazione e la morte del suo Creatore, è la scoperta delle Indie" scriveva il cronista spagnolo Francisco Lopez de Gomara negli ultimi anni del XV secolo; una lode implicita all'ammiraglio genovese Cristoforo Colombo, la cui gloria rende paradossale il fatto che ancora oggi ignoriamo quasi tutto dei suoi primi 25 anni di vita. "D'altra parte" scrive lo storico Michel Lequenne, "gli avvenimenti che costellano la sua vita, la genesi della sua scoperta, e persino la vera natura di questa, sono coperti da una fitta rete di misteri.". E' forse quest'alone d'enigma che ha portato gli storici e i mistificatori di ogni tempo ad elaborare le teorie più varie intorno al navigatore genovese: fu ritenuto a seconda delle occasioni un giudeo, un Cavaliere di Cristo, un eresiarca sostenitore di una religio universalis, un Templare...
Ritengo, di conseguenza, che giungerà gradita la traduzione italiana della Lettera di Armand de Châteauroux all'eccellentissimo Padre Juan Pérez non solo per l'apporto che potrà fornire allo storico interessato a risolvere le contraddizioni presenti nelle biografie "ufficiali" di Cristoforo Colombo (che Armand chiama sempre con il nome spagnolo di Cristobal Colón), ma soprattutto per la testimonianza oculare che il frate francese dà di quel luogo nominato - nella letteratura specializzata - con quella "maledetta parola che inizia per A".
Il manoscritto che riporta le vicende di padre Armand, rinvenuto nell'agosto 1997 in un scantinato di Venezia, mi è stato ceduto a modico prezzo dall'ingegner Tommaso Traian, che ringrazio cordialmente. Non si tratta dell'originale, datato 1507, ma di una copia realizzata alla fine del secolo XIX. Il testo documenta un solo passaggio di Armand de Châteauroux nel capoluogo veneto, tra il 1472 e il 1473. E' fatto innegabile, dunque, che il manoscritto vi sia giunto per altra via. Destinatario della missiva è Padre Juan Pérez, priore del convento francescano di La Rabida, distante sei chilometri da Palos. Secondo alcuni biografi, fu proprio tramite il priore Juan Pérez che Colombo, nel 1485, entrò in contatto con i monaci di La Rabida, cui affidò il figlio Diego. La mediazione del destinatario della lettera fu provvidenziale all'ammiraglio genovese per ottenere il consenso della regina Isabella di Spagna alla spedizione verso le Americhe.
Il mittente è tale Armand da Châteauroux, cistercense francese conosciuto a suo tempo sotto il falso nome di Armanio da Castellón de la Plana. In nessun archivio dell'epoca, neppure a Cîteaux, ove prese i voti nel 1459, compare alcun riferimento all'autore della lettera. Questa, scritta a La Rabida nel settembre 1507, può essere considerata una sorta di sua autobiografia. In essa egli rende testimonianza dei numerosi luoghi visitati durante i frequenti viaggi per mare, a seguito delle navi del genovese Enrico La Spinola.
La lettera mostra una struttura bizzarra. Come in un gioco di scatole cinesi, il resoconto manoscritto di Armand si incentra a sua volta su una lettera manoscritta ritrovata dal frate francese. Quest'ultima, inviata nel 1140 da uno sconosciuto sacerdote che si firma pater Johannes al papa Onorio II, venne riportata già nel 1992 da Alfredo Castelli in un suo lavoro dal titolo "La quarta caravella". Gli eventi vissuti da Cristoforo Colombo nel 1469 e citati da Armand trovano analoga corrispondenza nello scritto di Castelli, cui mi sono anche riferito per la traduzione italiana della lettera dell'ignoto sacerdote.
Per tutti questi motivi a lui vanno i miei più sentiti ringraziamenti.
Sono al corrente dei rischi che corro innanzitutto presentando questo manoscritto come autentico, ma ancor più proponendo un'ulteriore testimonianza dell'esistenza di una terra il cui nome suscita ancora l'ilarità da parte degli studiosi della cosiddetta "Storia Ufficiale". Temo, infatti, che lo scritto di Armand possa insieme essere accolto con indifferenza dagli storici e ingiustamente strumentalizzato da occultisti, che lo citeranno a riprova delle loro dubbie teorie.
Mi risolsi a pubblicare la lettera di Armand quando m'accorsi che, citando la stessa, "la luce della Verità conferiva a quelle parole uno splendore insolito, che non mi lasciava pace". Sono conscio d'offrire all'attenzione del lettore una cronaca affascinante, che darà, tra l'altro, una soluzione forse definitiva dell'ormai secolare mistero della firma di Cristoforo Colombo, su cui da tempo storici, archeologi ed occultisti stanno congetturando.
Un resoconto puntuale che potrà contribuire a far luce sull'enigmatica figura dell'uomo che (per primo?) ha scoperto un Nuovo Mondo.
Mariano Tomatis
Omio eccellentissimo maestro, il Signore mi conceda la grazia di redigere un resoconto verace e rigoroso degli accadimenti che mi videro protagonista durante l'ultimo quarto del secolo da poco terminato, nonostante i miei ricordi siano ormai sbiaditi e questo manoscritto, per le rivelazioni insidiose ed eretiche, difficilmente sopravviverà alla furia di coloro che rifuggono la Scienza e la Ragione. Invio a voi memoria delle terre che toccai quando il mio corpo era ancora privo di quegli umori che ora mi condannano a vivere in questa cella umida, allietato soltanto dalla fragranza del muschio ormai arrampicatosi sulla corrotta inferriata che mi separa dal chiostro. Ho opinione che delle mie visioni e dei miei viaggi non debba esser resa testimonianza che a voi, che avete conoscenza delle trame del maligno e potete distinguere ciò che può esser scoperto al volgo da ciò che invece dev'esser occultato tra i silenti scaffali della nostra biblioteca. A voi, Padre Juan Pérez, affido la mia testimonianza, accurata quanto veritiera, nella speranza che Nostro Signore mi perdoni di aver rivelato, sine malitia, particolari affidatimi in confidenza da peccatori di cui ho deciso di tacere i nomi, nel desiderio forse vano di ottenerne una pena minore nel Giorno del Giudizio.
Armand de Châteauroux
La Rabida, 11 settembre 1507
E' con atteggiamento penitente che mi accingo a narrare gli anni che vissi lontano da questo convento. Mi pento e riconosco di non avervi mai reso partecipe dei fatti mirabili di cui fui protagonista. Anni vissuti altrove sono stati causa di mormorii e storie intorno alla mia persona che i novizi ancora oggi si confidano in segreto e che forse sono giunte anche ai vostri orecchi. Riferisco a voi, Padre eccellentissimo, che si tratta di null'altro se non fantasticherie nate in seguito al mio rifiuto di rivelare le mie origini francesi. Io sono conosciuto da quasi trent'anni dai francescani di La Rabida come Armanio da Castellón de la Plana. Armand de Châteauroux fu, invece, il nome che mi venne assegnato da mio padre. Nella vostra indulgenza confido, chiedendovi perdono per avervi celato così a lungo il mio vero nome. O Padre eccellentissimo, comprenderete presto la necessità di mutarlo e di celare le mie origini, nascondendole sotto una falsa provenienza dalla città spagnola di Castellón. Ecco, dunque, la verità sugli anni che mi videro lontano da questo convento, nel quale dal 1481 dimoro lodando il Nome dell'Altissimo.
Trascorsi gran parte della mia infanzia presso Châteauroux, dove appresi la lingua latina, quella greca e alcuni rudimenti della lingua degli infedeli. Fui in grado di avvicinare i testi dei padri della Chiesa, e potei così apprezzare Agostino e tutta la Scolastica. La biblioteca cui accedevo conservava anche manoscritti di autori pagani, come Cicerone e Seneca, ed opere di filosofi greci, tra i quali, con meraviglia e piacere intellettuale, potei apprezzare Platone ed Aristotele.
Fui affidato alle cure dei cistercensi di Cîteaux nel 1453, in seguito alla morte di mio padre. Celebre per aver ospitato San Bernardo di Chiaravalle, il monastero si ergeva imponente su una rocca scoscesa dal lontano 1098, vigilia della conquista della Città Santa. Ne era priore Corrado d'Avignone, uomo dallo sguardo penetrante e severo, dotato di straordinario acume. Fui affidato alla cura della cripta, dove potei ammirare i tesori ivi custoditi. La mia mente non potrà mai cancellare il ricordo delle mirabilia cui mi trovai innanzi e di cui ero personale responsabile. Vidi un frammento della Santa Croce, su cui Nostro Signore trovò la morte. E vidi un brandello della tunica di San Giuseppe. E il piatto, inciso nel legno della pace, utilizzato da Gesù Cristo durante l'Ultima Cena. E una ciocca di capelli di Giovanni Battista. Per otto anni, mio compito fu quello di tenere in ordine i reliquiari e gli scrigni che si trovavano nella umida cripta.
Presi i voti nel marzo del 1459.
Un giorno di novembre del 1460, ormai entrato nel ventunesimo anno di vita, ebbi un colloquio con Giuseppe da Montefeltro, un fratello italiano conosciuto durante i miei primi giorni di permanenza a Cîteaux, profondo conoscitore della filosofia greca. Confrontammo le nostre posizioni sul pensiero di Aristotele, e ci trovammo concordi nel ritenere il sillogismo la base della logica. Mi disse d'aver studiato su un testo del filosofo greco di cui ignoravo l'esistenza, assicurandomi che ne avrei trovata un'ottima traduzione in francese nella biblioteca del monastero. Aggiunse sibillinamente che "cotesto volume era liberamente accessibile". Quale significato avevano queste parole? Forse che nel monastero esistessero testi proibiti? Lo interrogai riguardo l'accesso alla biblioteca, ed egli mi spiegò che tutti i libri presenti sugli scaffali erano consultabili nello scriptorium. Quando comprese che nelle mie parole si insinuava un sospetto velato, aggiunse che di altri documenti addirittura il priore ignorava l'esistenza. Non volli che la mia eccessiva curiosità frenasse le sue parole, dunque mi allontanai senza interrogarlo su questi fantomatici documenti. Sperai invano che i giorni successivi egli ritornasse sull'argomento. Mi domandavo per quale oscuro motivo egli potesse essere a conoscenza di testi la cui presenza era ignorata persino da Padre Corrado. Seppi in seguito che egli era stato confessore di Arnaldo di Cîteaux, l'ex-priore del monastero, deceduto in circostanze mai chiarite durante l'incendio che aveva coinvolto le stalle e parte del refettorio. L'unica ipotesi plausibile era che fratello Giuseppe fosse stato informato da Arnaldo della presenza di testi proibiti, nascosti in qualche luogo del monastero.
Ma le trame dell'Altissimo sono spesso lontane dalla Ragione Umana, e Provvidenza volle che nel prendere in mano uno scrigno d'avorio e onice dalla cripta, urtassi inavvertitamente una candela, che cadde per terra creando un effetto di luce sinistro. L'umidità del terreno spense in pochi istanti la fiammella, ma io non potei ignorare l'intarsiata superficie delle pietre del pavimento che da ormai quattro anni calpestavo. Erano sempre apparse ai miei occhi perfettamente levigate, mentre si rivelavano per un brevissimo istante incise in modo tutt'altro che casuale. Nella penombra completa, raggiunsi l'acciarino che custodivo in una cassetta di legno, e raccolta la candela, dovetti attendere un po' di secondi prima che l'umidità dello stoppino permettesse alla fiamma di ardere ancora. Riportai il cero sul candelabro, ma notai che il pavimento sembrava nuovamente levigato e lucido. Stupito per il gioco di luce, avvicinai la candela al terreno, e finalmente riapparvero le incisioni, rimaste invisibili ai miei occhi per quattro anni grazie all'ingegno di colui che aveva predisposto il candelabro in quell'unico punto, dal quale la luce creava un effetto ottico che occultava in maniera stupefacente i solchi della pietra. Una lastra circolare era attorniata da frammenti di roccia più piccoli, disposti a corona. Su ognuno di essi erano stati scolpiti dei raggi che sembravano provenire dalla pietra centrale, la quale riportava una profonda croix pattée templare. Ero a conoscenza del soggiorno che qui a Cîteaux fece San Bernardo di Chiaravalle, colui che nell'Anno del Signore 1128 convocò il concilio di Troyes per riconoscere la nuova militia Christi fondata da Ugo di Payns dieci anni prima e scrivere la regola per l'Ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo. Fui nondimeno colpito da quella incisione, e mi avvicinai per esaminarla. Si trattava del coperchio di una piccola botola, che scoprii senza sforzi, sollevando la lastra. Il buco che si discoperse aveva un diametro che permetteva ad una mano di penetrarvi con facilità.
E riuscii ad afferrare un rotolo di pergamena che si trovava sul fondo dell'incavo. Invoco il perdono del Signore Nostro Gesù Cristo per ciò che feci di quella pergamena, ripensando oggi al fatto che quel rotolo ingiallito dal tempo mi portò a vedere tanti luoghi e udire tante voci che forse mai più uomo vedrà né udrà, prima che il Giorno del Giudizio avrà riunito sotto la volta celeste l'intera stirpe dei discendenti d'Adamo. Nonostante la nostra Regola ci imponesse di compiere ogni azione previa autorizzazione del priore del monastero, riposta la lastra di pietra nella posizione originaria, ruppi il sigillo di ceralacca per poter osservare il contenuto di quell'involto, come rapito da quella scoperta. Stavo violando un documento papale.
"Summo ac Venerandissimo Pontifici Honorio, rendo grazie al Signore di cui io, padre Giovanni, sono umile e devoto sacerdote, per aver posto fine all'odissea iniziata dieci lunghi anni fa, allorché nel 1130, presi il mare da Genova diretto verso Cadice. Oltrepassate le Colonne d'Ercole, una furiosa tempesta si abbatté sulla nave. I marinai erano terrorizzati, e a stento riuscii a calmarli, intonando salmi. La tempesta si protrasse per giorni e notti. Sembrava che la collera del cielo si fosse scatenata sul capo del suo misero servitore. Governare la nave era impossibile. Molti perirono, strappati via dalle onde. Poi, il decimo giorno, il vento si placò, ma poche erano le possibilità di salvezza. Il cibo scarseggiava, le provviste rimaste si consumano sotto il sole. Anche l'acqua, di cui avevamo raccolto un'abbondante scorta durante la tempesta, si imputridiva nei barili. Alberi e vele erano stati danneggiati dal fortunale, tuttavia l'imbarcazione procedeva egualmente, trascinata da una corrente sconosciuta. Giorno dopo giorno, spinti da venti impetuosi che gonfiavano ciò che rimaneva della vela, verso un destino sconosciuto. Solo la fede mi impedì di compiere l'atto supremo e di togliermi la vita, anche se non ero certo - che Dio mi perdoni - che le tenebre dell'inferno fossero peggiori degli orrori di quel viaggio. Non so neppure quanto tempo durò quell'agonia. Ma un giorno all'orizzonte comparve, inaspettatamente, una terra sconosciuta. Quando approdammo, fummo accolti da uomini con la pelle rossa, acconciati con penne variopinte. Questi indigeni non portavano né bastoni, né zagalie, né altro tipo di arma. Erano miti e gentili, e io immaginai che così avremmo potuto essere se non avessimo perduto per sempre il Paradiso Terrestre. Quella terra era ricca e generosa, sia di frutti che di cacciagione, oro e pietre preziose e i suoi abitanti ci accolsero come fratelli e ci sfamarono. Io parlai loro del Dio giusto che sta nei cieli, e molti dei loro capi vollero convertirsi alla vera fede. Tra i superstiti del naufragio vi era il carpentiere di bordo. Con il suo aiuto, e con quello degli uomini dalla pelle rossa, riparammo la nostra nave e un'altra ne costruimmo. Mi stupii della velocità con cui quelle creature che Dio aveva voluto creare al di là dell'oceano impararono a maneggiare strumenti che non avevano mai visto prima. A bordo delle navi gemelle, esplorammo una parte di quella terra sconfinata, e vedemmo cose fantastiche e prodigiose. Immensi alberi alti fino alle stelle, le cui radici formavano di per se stesse una foresta, paludi senza fine, popolate da animali meravigliosi e sconosciuti, e soprattutto una sorgente, che gli uomini dalla pelle rossa chiamavano "fonte della vita". Io stesso lasciai che l'acqua mi scorresse sugli abiti, e d'improvviso sentii svanire la stanchezza per il lungo viaggio. Mi parve che le membra si facessero più leggere e mi sembrò di essere tornato vigoroso come negli anni della gioventù. Compresi che avevo trovato quel sacro luogo per volere di Dio e volli che Santità Vostra fosse a conoscenza dell'Arcadia in cui ero giunto portato dai venti, e scrissi questa lettera, e poiché non voglio abbandonare i miei fedeli, affiderò il mio messaggio a coloro che mi hanno accompagnato per molti viaggi e meglio conoscono la manovra della nave e Iddio Onnipotente sarà il capitano. Nei lunghi anni della mia permanenza ho insegnato ai miei fedeli il latino. Essi potranno riferire a viva voce a vostra santità la potenza e la fede del reame che vengono ad offrirvi, e descrivervi le meraviglie di queste terre create da Dio Onnipotente a sua maggiore gloria, e io spero che vostra santità si degni di concedere a questi coraggiosi messaggeri la sua personale benedizione. Il vostro devoto pater Johannes."
Le rivelazioni mirabili e sorprendenti contenute nella lettera, risalente al 1140, erano indirizzate a Papa Onorio II, il quale non ebbe certo modo di venirne a conoscenza. Sua Santità morì nel 1130, lasciando il pontificato a Innocenzo II, che per qualche oscuro motivo aveva occultato in un monastero francese documenti che contenevano riferimenti a terre oltre le colonne d'Ercole. Ma a quali terre si riferiva il mittente pater Johannes? Sapevo che le Sacre Scritture non parlavano di terre al di là dell'Oceano; si trattava, dunque, di rivelazioni null'altro che fantasiose oltre che insidiose per la fede cristiana. Tutto questo non spiegava, però, il fatto che non fossero state distrutte, bensì nascoste sotto un sigillo templare. Rivolsi il mio pensiero a San Bernardo di Chiaravalle. Era lui, infatti, l'unico elemento che poteva spiegare la presenza di una croix pattée a Cîteaux, sotto la quale un documento papale era celato da quasi tre secoli. Nascosi la pergamena all'interno della mia cella, e ne ricopiai ogni parola sul vello che tuttora conservo su questo mio tavolo, grazie al quale oggi ho potuto riprodurre l'originale su questa pergamena che vi invio.
Quando il senso di colpa prevalse sullo stato d'eccitazione che il testo di quella lettera mi aveva procurato, provai un profondo desiderio di confessare il mio peccato a Corrado. Non lo trovai presso la sua cella, e mi fu indicato di raggiungerlo nella cappella. Quando vi giunsi, lo trovai in piedi dinanzi ad una vetrata finemente lavorata, raffigurante Giuseppe d'Arimatea con due dita sollevate in segno di benedizione. Preferii essere diretto, e mostrargli la pergamena ritrovata. Gli dissi che i sigilli erano già infranti nel momento in cui la rinvenni nella cripta, nascondendogli il fatto che ne avevo letto il contenuto e ne ero rimasto impressionato. Egli la prese tra le mani con sguardo impassibile, abbassando gli occhi e fissando il rotolo ingiallito, quasi imbarazzato per la sua incapacità di mostrare una benché minima reazione al mio straordinario ritrovamento.
Poi, mantenendo lo sguardo fisso al suolo, mi disse che non avrei dovuto riferire a nessuno del mio ritrovamento. Si fermò per un momento, e sollevando il capo mi chiese se avevo esaminato il contenuto della pergamena. Mi accorsi che non potevo mentire. Gli dissi sottovoce: "Maestro, vorrei ricevere il perdono dei miei peccati." Egli capii che mia intenzione era quella di rivelargli, sotto il segreto confessionale, che avevo letto il manoscritto. Evidentemente quella mia richiesta era già una confessione, ed egli si limitò a dirmi che il mio confessore era Jacopo da Trani, e che il fratello italiano sarebbe stato lieto di poter liberare la mia coscienza dal peso del peccato.
Trascorsero i giorni, ma un profondo turbamento mi impediva di lodare l'Onnipotente con animo sereno. Lasciai il monastero il 17 gennaio 1461, allorché venni a sapere che il priore aveva convocato l'Inquisizione con urgenza. Capii che si stava tramando alle mie spalle un'imboscata. Ne avevo avuto sentore alcuni giorni prima, quando avevo trovato nella cripta, nascosti sotto un panno di velluto che utilizzavo per lucidare i reliquiari, alcuni libri scritti dagli Infedeli. Chiunque avesse messo lì quei volumi non poteva certo sapere che i miei studi giovanili comprendevano una superficiale ma non disprezzabile conoscenza del moresco. Fu grazie a questo che mi accorsi delle insidie alla fede cristiana che presentavano quei testi. Il primo, di un certo Al Kuwarizmi, era dedicato all'osservazione astrologica della volta celeste, pratica proibita dalla Chiesa di Roma, soprattutto se eseguita secondo i dettami di un Infedele. Un secondo volume descriveva la preparazione di un infuso che, assunto secondo certe dosi, poteva dare visioni. Un terzo volume trattava l'arte magica, analizzando in particolare stregonerie e invocazioni diaboliche. Pensai immediatamente che se qualcuno avesse trovato nella cripta libri del genere, non gli sarebbe stato difficile dubitare della mia ortodossia in materia di fede. Si saliva sul rogo per molto meno. Riuscii a liberarmene molto celermente, interrogandomi sul motivo per cui si trovassero in un luogo che soltanto io frequentavo.
Lasciai Cîteaux in incognito, sospettando un complotto organizzato contro di me da Corrado d'Avignone [1]. Portai con me, come unico bagaglio, la copia della pergamena di padre Giovanni. Raggiunsi in un paio di settimane Carcassonne, dove fui ospitato dal fratello minore di mia madre, che ivi possedeva un vasto appezzamento terriero coltivato ad avena e granoturco. Rimasi da lui per alcuni mesi, evitando di mostrarmi alle adunanze pubbliche per il timore di esser riconosciuto da messi di Corrado. Conobbi un frate benedettino che mi fu presentato dal mio albergatore, e con lui ebbi occasione di parlare della pergamena. Gliela mostrai, ed egli ne rimase turbato, quasi fosse un sacrilegio anche solo leggere le parole di pater Johannes, che le aveva vergate quasi tre secoli prima. Poi mi raccontò di aver passato alcuni anni a Tolone, e di aver navigato a lungo come sacerdote di bordo. Durante i brevi soggiorni nei porti che raggiungeva, gli era capitato di venire a contatto con molte carte nautiche. In una occasione particolare, sbarcato a Cadice, fu incaricato di sgomberare la stiva di una nave dai barili di melassa che vi erano contenuti. Tra le botti scorse una cassa marchiata a fuoco, riportante una data che non ricordava, ma che gli era apparsa molto antica. Scoperchiata, vi ritrovò non melassa, ma "monili dalla fattura sì mirabile, che non potevano provenire che dalle terre del Cathai". Sul fondo della cassa, ritrovò una carta gravemente danneggiata dalla salsedine che l'aveva intaccata durante i frequenti allagamenti della stiva. Prima di sbriciolarsi tra le sue dita, egli poté notare che la direzione di navigazione seguita dalla nave era stata da ovest ad est. Trovò strano questo fatto, in quanto il regno del Gran Cane [2] si trovava ad oriente dell'Ispagna, ragion per cui un viaggio dal Cathai a Cadice doveva aver seguito la direzione opposta a quella segnalata dalla mappa. Concluso il lavoro di sgombero, si informò sulla provenienza della nave. Gli dissero che si trattava di una cocca anseatica costruita a La Rochelle per conto della Chiesa di Roma, e che era rimasta possedimento papale fino a un secolo prima, quando era stata ceduta al re di Ispagna. La lettera di padre Giovanni, che parlava di un viaggio verso ovest oltre le colonne d'Ercole, gli aveva richiamato alla mente quella carta nautica e quei monili, giunti da ovest verso l'Europa. Le Sacre Scritture non parlavano di terre oltre le colonne d'Ercole, eppure quel manoscritto sembrava giungere da luoghi sconosciuti a tutta la cristianità. C'era corrispondenza tra l'origine di quei tesori e le terre su cui era sbarcato pater Johannes? Discutemmo a lungo di questi fatti sottovoce, consapevoli della pericolosità delle nostre ipotesi che avrebbero gravemente insidiato la fede del popolo cristiano nell'infallibilità dei testi biblici.
Riuscii ad ottenere una lettera con il sigillo del monastero benedettino, e alla fine del 1461 raggiunsi una abbazia che sorgeva a pochi chilometri da La Rochelle, con l'intento di scoprire l'origine di quel manoscritto. Mutai il mio nome in Armanio da Castellón de la Plana e fui presentato ai miei confratelli come un frate spagnolo emigrato in Francia sedici anni prima a seguito del padre (questo per giustificare la mia perfetta pronuncia del francese e la mia scarsa conoscenza della lingua ispanica). Venne ordinato a tutti di non interrogarmi sul passato a causa dell'impiego di mio padre, che lo portava a mantenere un'assoluta segretezza intorno ai suoi affari. Si crearono, per questo, situazioni che mi indussero al riso, come quella volta che colsi di sorpresa alcuni novizi che speculavano sulle possibili attività del mio genitore, solo io sapendo che - pace all'anima sua - egli era ormai deceduto da otto anni.
Nell'abbazia potei consultare un gran numero di documenti ed archivi, nei quali trovai molti riferimenti a navigazioni compiute nei secoli scorsi, oltre che a progetti futuri di notevole interesse. Tra i vari, ne spiccava uno particolarmente temerario. Sei anni prima [3] l'Impero Ottomano aveva conquistato gran parte dell'Asia [4], controllando così le vie utilizzate dai mercanti per raggiungere i paesi delle spezie. Un navigatore chiamato Fernão Gomez da alcuni anni stava sottoponendo allo studio della corte di re Alfonso di Portogallo un tragitto che, oltrepassate le colonne d'Ercole, avrebbe costeggiato la costa dell'Africa verso Sud, nella speranza di trovare un passaggio ad est da attraversare per raggiungere l'Estremo Oriente via mare. (Come saprete, raggiunse otto anni dopo un'isola che chiamò Fernando Póo, fallendo nel suo tentativo di circumnavigare il continente africano, impresa riuscita solo due lustri or sono da Vasco da Gama.)
Consultai l'Imago mundi incipit del cardinal d'Ailly, nel quale il dotto francese aveva cercato di dimostrare la perfetta concordanza delle scienze profane, quali l'astronomia e la cosmografia, con la teologia, l'Historia rerum ubique gestarum dell'allora papa Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini e l'Historia naturalis di Plinio. Ebbi la possibilità di approfondire i miei studi su Aristotele, ritrovandovi verità valide ancora oggi, e su autori come Tolomeo, Marino di Tiro e il profeta Esdra, del quale annotai l'affermazione per cui solo la sesta parte della Terra è coperta dalle acque. Potei consultare anche manoscritti molto rari: l'abbazia custodiva la traduzione in francese di un testo del cosmografo arabo al-Farghani (citato dal cardinal d'Ailly come Alfraganus) che riportava misure accurate delle terre emerse e degli oceani che le circondavano.
Non tralasciai antichi testi della letteratura greca, dalla vastissima "Descrizione della terra" del geografo Ecateo di Mileto [5], fino ad un fondamentale testo del filosofo Proclo [6], che nel menzionare lo storico ellenico Marcello, contemporaneo di Platone, riferiva che quegli aveva varcato le "Colonne d'Ercole", raggiungendo un arcipelago di dieci isole, rimasuglio di una terra ormai sprofondata negli abissi, forse quella descritta da Platone nei suoi dialoghi Timeo e Critias. E tali descrizioni di terre ad ovest dell'Ispagna venivano confermate da storici del terzo secolo dopo la Nascita di Nostro Signore: Crantore di Soli [7], compilando un commento al Timeo, ribadiva la realtà geo-storica di tali terre, riprendendo così un'opinione già espressa nel primo secolo avanti Cristo dal filosofo stoico e poligrafo Posidonio d'Apamea [8]. Omero parlava di Cymmeria, terra "oltre le colonne d'Ercole", ed Erodoto citava nelle sue Historiae il popolo degli Atalanti, che sarebbero vissuti ai confini occidentali della terra. L'esistenza di una terra ad ovest del mondo conosciuto veniva confermata da Ammiano Marcellino, e Teopompo giungeva a chiamarla Meropide. Ma c'era chi la nominava Makhimos, e chi ancora Eusebes...
Le lunghe giornate passate a consultare testi intorno alla navigazione crearono in me una sorta di eccitazione mentale, di richiamo verso orizzonti inesplorati alla ricerca di quelle terre che soltanto il prode Ulisse aveva toccato, trovandovi la dannazione. Fu un desiderio che dapprima volli soffocare, sottoponendomi a penitenze e dedicando innumerevoli ore alle lodi del Signore. Ma la linea azzurra che ogni giorno osservavo oltre la fitta boscaglia, oltre a dividere l'aere dalle acque mediterranee, si interponeva tra la volontà di servire il Signore in un monastero e il desiderio struggente di superare l'erculee colonne, verso i forse inesistenti paradisi che mi prometteva lo scritto di pater Johannes. Ma se continuavo a salmodiare, ripetendomi che la lettera era soltanto una finzione ingenua e insidiosa, la luce della Verità conferiva a quelle parole uno splendore insolito, che non mi lasciava pace. Allora giustificavo il mio desiderio, conferendogli nobili intenti: oltre l'Oceano, riposava in terra pagana un uomo della Chiesa di Roma. Quale gesto poteva esser più meritevole di un tentativo di recupero del suo cadavere, al fin di riportare le sue spoglie mortali in terra cristiana?
E forse Indicopleste Cosma [9] non commetteva un errore nel proporre nel suo Christianiké Topografia una terra rettangolare alla cui estremità orientale si troverebbero le terre cristiane, all'estremità occidentale essendoci quella che nomina "Terra al di là dell'Oceano" dimora degli uomini prima del Diluvio Universale. Pater Johannes aveva raggiunto a ponente l'Hortus Conclusus [10]? Il Giardino di Eden? Il Paradiso terrestre erroneamente ipotizzato a levante da Sant'Ambrogio e Sant'Isidoro? Sentivo che tornarvi sarebbe stata un'impresa realizzata a maggior gloria di Nostro Signore, che ivi aveva soffiato nelle narici d'Adamo la linfa vitale. Che Iddio mi stesse chiamando a rivelare alla cristianità le primizie di Eden, perduto per via del peccato originale?
Pensieri, interrogativi e perplessità che non dovettero passare inosservate ai miei fratelli dell'abbazia, i quali più volte mi avvicinarono al fin di conoscere i motivi dei miei studi, delle mie giornate in biblioteca, ma soprattutto dei miei silenzi. Ed io, restio ad aprirmi quanto assorto nelle mie ricerche, ottenni soltanto il risultato di diventare oggetto dello scherno e della celia da parte dei novizi, oltre che di insinuazioni e sospetti. Voci calunniose raggiunsero anche il padre superiore, che mi convocò per un colloquio privato. Non mi dilungherò sulle incresciose infamie che mi vennero attribuite. Dirò soltanto che mi difesi con orgoglio da tutte le accuse, mai citando i miei studi né il manoscritto di padre Giovanni, e chiedendo in conclusione licenza di lasciare l'abbazia al fin d'intraprendere la via del mare a seguito di una delle tante galere. Il padre superiore fu ben lieto d'allontanarmi da quel luogo, per via dei rapporti tesi che ormai s'erano creati tra me e i confratelli, e non fu difficoltoso ottenere una lettera in cui venivo presentato con ottime credenziali. Lasciai l'abbazia il 5 giugno 1463 e raggiunsi il porto di La Rochelle, dove conobbi il cartografo spagnolo Juan de Talavera. Fu egli a mettermi in contatto con una commissione di matematici presieduta dall'Arcivescovo di Ceuta, Diego Cortiz di Villegas, incaricata dal re portoghese Giovanni di vagliare con attenzione tutte le proposte di navigazione per il futuro prossimo ed eseguire accurati calcoli dell'oikoumene. Dovetti, così, lasciare la costa atlantica, senza esser riuscito ad approfondire gli studi sulle cocche anseatiche papali di cui mi aveva parlato il benedettino di Carcassonne. Raggiunsi Lisbona nei primi giorni di luglio, ed ivi potei avvicinare, tra gli altri, due esperti di astronomia ebrei, José e Rodrigo Vizinho, un dottore tedesco, Martin Behaim, e lo studioso fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli [11]. Gli interrogativi che il manoscritto di Cîteaux mi aveva ispirato furono da me espressi alla commissione nel dicembre del 1463, durante un incontro tenuto negli appartamenti reali. Senza mai mostrare il documento in mio possesso, citai il racconto del frate benedettino, sostenendo che la presenza di terre a ponente poteva non essere in contraddizione con le Sacre Scritture. Portai a sostegno di questa tesi i molti testi che avevo consultato negli anni precedenti. L'arcivescovo Diego Cortiz contestò alcune mie fonti, facendo notare che i dialoghi platonici da me citati si ponevano in evidente rottura con i testi Biblici. Il filosofo sosteneva che le terre occidentali avessero ospitato una civiltà progredita ben novemila anni prima della nascita di Nostro Signore, fatto che contraddiceva il Genesi, dal quale si evinceva che la creazione del mondo risalisse al 3760 prima di Cristo. Rodrigo Vizinho confermò questa tesi, poiché anche per i giudei i Dialoghi di Platone negavano le conclusioni sulla data della Creazione del mondo cui si giungeva studiando i rotoli della Torah. Fu Paolo dal Pozzo Toscanelli che tentò una spiegazione della mappa di Cadice. Egli, infatti, da anni stava vagliando con cura una teoria che, se verificata, avrebbe mutato completamente la visione che si aveva della massa terrestre. Secondo lui, le Indie erano raggiungibili navigando verso Ovest. Dapprima non riuscii a cogliere neppure la possibilità che una tale teoria potesse in qualche modo verificarsi, così che per chiarificare il concetto, prese in mano un pomo d'ottone che si trovava sopra una splendida cassettiera in mogano. Sostenne che la terra poteva essere curva come quella sfera metallica o, in alternativa, come un'asta cilindrica. In entrambi i casi, scelti due punti, si sarebbe potuto passare dal primo al secondo seguendo due archi distinti, uno più breve, l'altro più lungo, che sarebbero coincisi soltanto quando i due punti si fossero trovati l'uno opposto all'altro. La somma dei due archi sarebbe stata l'intera circonferenza terrestre.
Alitò sul pomo, e con un dito lasciò un'impronta per indicare il continente europeo. Poi ruotò la sfera di oltre mezzo giro verso sinistra, indicando il punto dov'egli suppose la presenza delle Indie. Mi chiese quale fosse il tragitto più breve che un'imbarcazione avrebbe dovuto seguire per raggiungere il Cathai dal Portogallo. Tutto si chiarificò nella mia mente. Se la terra avesse davvero avuto forma sferica, il percorso più breve sarebbe stato diretto verso occidente. Fu Rodrigo Vizinho a citare un gran numero di studi che sembravano confortare questa tesi affascinante che sollevava, però, dubbi e perplessità. Ci si domandava, infatti, come potessero aderire alla massa terrestre gli uomini che fossero vissuti sul punto opposto al nostro. Si trattava di un interrogativo di non poco conto, cui la commissione non sapeva rispondere. Lo studioso José Vizinho portò a sostegno di questa tesi il fatto che, quando una nave si avvicina ad un porto, la si vede comparire gradualmente all'orizzonte, e se ne possono avvistare dapprima le vele, poi la chiglia e i naviganti. Per esemplificare il suo discorso, prese una candela e ne fece colare alcune gocce sul pomo d'ottone. Modellò la cera a guisa di nave molto stilizzata, e pose davanti ai miei occhi la sfera metallica. La cera era invisibile ai miei occhi, fissata com'era sul punto opposto a quello rivolto verso di me. Fece ruotare il pomo intorno ad un ipotetico asse orizzontale, simulando così il moto di una galera. Vidi dapprima il contorno netto della sfera, poi spuntò, sul suo punto più alto, il culmine della costruzione di cera. In pochi secondi si palesò l'intera nave, gradualmente uscita dalla linea dell'orizzonte. Capii che la lenta e non subitanea comparsa di una nave, così come più volte avevo osservato a La Rochelle, poteva esser ben giustificata dalla teoria che proponeva una terra sferica.
Non terre sconosciute a ponente, dunque, ma le già esplorate Indie. Eppure la mappa di Cadice risaliva ad almeno due secoli prima, e la lettera di Pater Johannes, nonostante non sembrasse alludere alle terre del Cathai ma ad una Arcadia sconosciuta alla cristianità, era datata "1140". Mi chiedevo come potesse, colui che compilò la carta ritrovata dal benedettino, essere già a conoscenza del passaggio a ponente per le Indie, ipotizzato soltanto in questo secolo dal fiorentino Paolo dal Pozzo. Forse l'idea di una terra curva era già stata avanzata e studiata nei secoli passati: padre Giovanni avrebbe raggiunto le regioni da lui descritte già negli anni successivi il 1130. Non riuscivo a spiegarmi il motivo per cui queste conoscenze, straordinarie e mirabili, non furono mai diffuse; al contrario l'intera cristianità continuò ad ignorarle. Esisteva indubbiamente una volontà e un progetto ben definito dietro questa vasta operazione di copertura, e le poche tracce che palesavano questa realtà erano la cripta di Cîteaux e la mappa di Cadice. Non avrei dovuto trascurare, però, il ruolo svolto da La Rochelle, ove la nave dal ponente era stata costruita.
Ebbi la possibilità di seguire gli studi della commissione per undici anni. Ospitato in un monastero che sorgeva a poche miglia da Lisbona, avevo il compito di studiare le implicazioni teologiche che avrebbe avuto la scoperta di una terra curva. Dedicai intere giornate alla lettura dei testi dei Padri della Chiesa, allo studio delle Sacre Scritture e degli innumerevoli commentarii che esistevano intorno ai vari profeti. Fui coinvolto in discussioni sempre più ardite: da disquisizioni sulle misure delle terre emerse si giungeva alle ipotesi sulla conformazione del cosmo. Dalla navigazione all'astronomia, i dibattiti si svolgevano in un clima di grande apertura intellettuale e rispetto reciproco. Venivo spesso convocato per garantire l'ortodossia delle opinioni espresse, e più volte mi affidai alla preghiera per esercitare l'interpretazione dei passi biblici più oscuri. Sulle mie attività vigilava il vescovo Diego Cortiz di Villegas, che spesso lodava le mie intuizioni o le mie riflessioni teologiche, e solo raramente correggeva pensieri che, a suo dire, si prestavano con facilità ad essere fraintesi. Ci scambiammo ogni genere di appunto manoscritto, evitando che qualsivoglia documento uscisse dalla commissione e cadesse in mano a profani. Fu allora che avvicinai un importante manoscritto riportante uno studio realizzato duecento anni prima della nascita di Cristo. L'erudito greco Eratostene, rettore dell'ormai scomparsa Biblioteca di Alessandria, si era accorto che il 21 giugno di ogni anno il sole si rifletteva all'interno di un pozzo di Syene. La direzione dei raggi, dunque, era perpendicolare al suolo. Nello stesso istante, ad Alessandria, i raggi cadevano con una inclinazione di 7 gradi e 30 primi. Dall'analisi di questo particolare, egli intuì che la terra potesse avere forma sferica, e valutato che la distanza tra la città di Syene ed Alessandria era di 5000 stadi, gli bastò risolvere un semplice calcolo matematico per dedurre che la circonferenza terrestre doveva essere di 240 mila stadi [12]. Inclusi nella mia documentazione questo importante particolare, con il pensiero che sarebbe bastato sottrarre la distanza che esisteva tra la terra più occidentale del Portogallo e quella più orientale del Cathai al risultato ottenuto da Eratostene, per ottenere la larghezza del tratto di mare che, da levante a ponente, divideva le coste europee dalle terre del Gran Cane.
Con l'arrivo della primavera del 1472 mi allontanai da Lisbona per raggiungere le coste italiane. Durante tutti i mesi precedenti avevo inviato alle principali capitanerie mediterranee dettagliati rapporti degli studi compiuti, proponendo di mettere a disposizione le mie conoscenze a chi mi avesse incluso nell'equipaggio di una qualche flotta navale. Arrivai a Genova il 16 aprile 1472, accolto dall'agiato mercante Enrico Spinola. La sua famiglia deteneva gran parte del controllo sul commercio marittimo della città italiana, insieme con i Di Negro. Mi accorsi presto che loro intenzione era quella di affiancarmi ad un ammiraglio come sacerdote di bordo; essi non nutrivano alcun interesse nei confronti delle mie conoscenze geografiche. Fu un duro colpo per il mio orgoglio, ma vissi questa umiliazione come penitenza per i tanti peccati di superbia intellettuale più volte commessi quando a Lisbona mi ero dilungato su un testo d'astronomia, sottraendo così decine di minuti all'esercizio delle lodi. Mi imbarcai su una delle tante navi mercantili, toccando durante il viaggio alcuni porti del litorale francese. L'equipaggio comprendeva una dozzina di commessi in grado di scaricare il contenuto dell'imbarcazione in meno di trenta minuti. I miei doveri si limitavano a recitare la Santa Messa nei giorni di domenica e confessare gli uomini che me ne facevano richiesta. Spesso non mi limitai a questo: più d'una volta corressi alcuni errori commessi nel calcolo delle distanze da compiere per raggiungere determinati porti, ed acquistai una buona fama mostrando agli uomini di bordo l'uso dell'astrolabio e del quadrante, i cui rudimenti avevo appreso in Portogallo. Fu per questo motivo che mi venne offerta la possibilità di imbarcarmi su una grossa nave diretta a Tunigi [13]. Mi fu raccomandato di non far parola con l'equipaggio della destinazione, che sarebbe stato tenuto all'oscuro del tragitto seguito. Il comandante della nave, Cristobal Colón [14], era poco più che ventenne, ma per l'abilità e il carisma sapeva con facilità conquistarsi la fiducia dell'equipaggio. Fu lui a contattarmi e a confidarmi che avrebbe necessitato di un appoggio sulla nave: avremmo dovuto far credere ai marinai che nostra destinazione sarebbero state le coste portoghesi. Con l'aiuto di un magnete, ogni notte avremmo dovuto deviare la direzione della bussola, così da dare ad intendere che stessimo vogando verso ovest. L'ordine, impartito da re Renato d'Angiò, era quello di catturare la galeazza spagnola Fernandina, al largo delle coste tunigine [15]. Rifiutai con veemenza di imbarcarmi su una nave corsara a fianco di Cristobal, che dovette quindi lasciare il porto di Genova senza il mio appoggio. La forzata permanenza nella città italiana, dovuta al mio rifiuto, mi permise di avvicinare molti marinai, con i quali ebbi interessanti discussioni. Venni a conoscenza delle più diffuse leggende sul mare, che raccontavano dell'esistenza di orribili mostri marini, di mortali gorghi, di terre popolate da "huomini selvaggi orrendi a vedersi, perché hanno le corna e non parlano, ma grugniscono come maiali, da malvagi pigmei che si nutrono di amici e parenti appena questi passano a miglior vita", di "grandi montagne d'oro che le formiche mantengono con diligenza piene; e queste formiche sono grandi come cani, così che nessun uomo osa venire in queste montagne perché le formiche lo assalirebbero e lo divorerebbero subito, così che nessun uomo possa prendere di quell'oro se non con grande furberia". Mi accorsi che gran parte di queste visioni derivavano da un testo dell'inglese John Maundeville [16], che con simili termini aveva descritto il misterioso regno di Presbiter Johannes [17]. Mi fu riferito di un bizzarro ritrovamento fatto dall'equipaggio di una nave che aveva raggiunto le coste del Marocco, superando le colonne d'Ercole e dirigendosi verso meridione. All'interno di una regione pianeggiante nei pressi della foce di un fiume [18], sorgevano i resti di un tempio eretto nel V secolo prima di Cristo dalla civiltà fenicia. Dallo studio delle poche iscrizioni ancora leggibili fu evinto dagli studiosi di bordo che si trattava di una costruzione elevata al dio Baal Berith. All'interno di un piccolo anfratto del terreno, i marinai rinvenirono una gran quantità di anfore riccamente decorate. La maggior parte d'esse riportava raffigurazioni di guerrieri e iscrizioni in caratteri greci. La presenza in terra fenicia di vasellame greco venne, allora, giustificata dal fatto che c'erano probabilmente stati contatti e scambi commerciali tra i due popoli dell'antichità. In particolare, un'anfora riportava i confini di alcune terre tra le quali i marinai avevano riconosciuto le coste spagnole e nordafricane. A sinistra, poco più a sud di un gruppo di isole, su una vasta terra compariva l'immagine di un uomo incoronato che emergeva dalle acque reggendo un tridente. Soltanto cinque caratteri erano ancora visibili, talas, ma tanti bastavano per identificarlo con Poseidone, il dio del mare, che i greci esprimevano con il sintagma talassas teos. A sinistra del dio pagano, compariva l'immagine di un leone che cavalcava un sole, proiettando un'ombra allungata.
Dissi ai miei interlocutori che ero molto interessato a qualsiasi documentazione che trattasse di terre ad ovest del continente europeo. Uno scrivano francese mi disse di aver letto su un testo dello scrittore greco Luciano di Samosata, vissuto due secoli dopo la nascita di Nostro Signore, che al di là delle Colonne d'Ercole le acque ad un certo punto diventano latte e si frangono contro le coste di una bianca isola che è un enorme cacio di circa quattro chilometri e mezzo di circonferenza. Su di essa, dai grappoli delle viti, non si ottiene vino ma latte. Vi stupirà, Padre, il fatto che davvero ritrovai queste descrizioni in Luciano di Samosata [19]. Come immaginerete, non diedi alcun credito a queste fantasie, ma mi chiesi se la presenza di terre a ponente non avrebbe potuto, nel passato, generare tali storie, trasformate successivamente in leggende inverosimili quanto bizzarre. Ma altri racconti attirarono maggiormente la mia attenzione: come quello di un mercante veneziano, che mi disse di aver ritrovato un'iscrizione che avrebbe potuto interessarmi. Pochi anni prima, egli aveva ricevuto dalla Francia un grosso carico di stoffe contenuto in vecchi cassoni di legno, marciti in più punti. Si adirò molto per la pessima resistenza all'umidità del legno con cui i contenitori erano stati realizzati: a causa del pessimo stato delle casse, molte stoffe dovettero essere rammendate e lavate con cura. Nella lettera di scuse che gli fu inviata dalla compagnia con cui aveva stipulato l'accordo commerciale, gli venne detto che il legno dei cassoni era stato recuperato dalla chiglia di una nave demolita per l'estrema usura [20]. L'apparente solidità s'era invece rivelata pessima, ed erano disposti a risarcirlo dei danni in cui era incorso. Studiando più a fondo la struttura delle casse, riconobbe sezioni e scanalature tipiche delle chiglie, depositi di salsedine e crepe levigate, dovute ai continui urti e movimenti dell'acqua. Sul fondo di un cassone scorse un asse che riportava un'incisione raffigurante un quadrato diviso in venticinque settori. Ogni settore conteneva una lettera dell'alfabeto, come a formare cinque parole di cinque lettere. Il senso della frase che ne risultava era assai oscuro, e sembrava alludere ad una isola ad ovest d'una regione dal nome incomprensibile. Tale quadrato di lettere gli aveva riportato alla mente il più celebre quadrato del Sator [21], che di certo, Padre, conoscerete già per averlo osservato durante le vostre peregrinazioni in Italia [22]. Mi assicurò che l'asse di legno su cui era inciso il quadrato proveniva dalla nave come tutti gli altri frammenti. Si chiese quale potesse essere il significato di tale quadrato, ma ancor più il motivo per cui comparisse su una nave. Ricopiò il disegno, e dopo aver fatte asciugare al sole le casse danneggiate, le utilizzò l'inverno successivo per scaldare la sua casa.
Gli chiesi se ancora possedesse la copia di quel quadrato, ed egli mi confidò che aveva custodito il foglio (insieme a centinaia di altri appunti di navigazione e carte nautiche) nella sua casa di Venezia.
E fu così che, due settimane successive, mi ritrovai su una nave mercantile diretta sulle coste del mare Adriatico: la sorte, infatti, volle che un carico fosse inviato a Monfalcone, nel golfo di Trieste, ove recapitammo un grosso carico di vini e sostammo nove giorni, poiché la nave necessitava di ingenti riparazioni per le difficoltà avute durante il viaggio. In quel lasso di tempo ebbi la possibilità di raggiungere la laguna veneziana a bordo di una piccola imbarcazione che, nonostante le apparenze, solcava il mare con una velocità e stabilità sorprendenti. Insieme a me, lo sfortunato mercante di stoffe e un eccellente timoniere che conosceva bene sia la zona, sia - e lode a Dio per le delizie ittiche che potei degustare in quei giorni - l'arte della pesca.
Resi grazie all'Altissimo con un salmo del re Davide nell'istante in cui da lontano iniziammo a scorgere i lumini della città lagunare. Approdammo a notte fonda, e decidemmo di attendere le luci del mattino accovacciati a nella scomoda chiglia della barca.
Poco dopo il sorgere del sole, giungemmo all'abitazione del mercante veneziano, il quale mi introdusse in un sottoscala che conduceva ad uno scantinato umido. L'atmosfera richiamò immediatamente la cripta di Cîteaux. Ma fu ricordo di un istante. Ritornano alla mia mente più chiare, invece, le ore di febbrile ricerca passate per rinvenire quel testo tra decine e decine di pergamene, fogli ingialliti e velli ricoperti di un sottile strato di muffa. L'arredamento della stanza era assai povero, ma le tre casse che si trovavano sul pavimento rivelavano ad ogni ispezione nuovi anfratti e interstizi inesplorati, pannelli lignei invisibili ad uno sguardo sommario e assi che celavano cavità e fori di ogni forma. Anche il timoniere ci aiutò nella ricerca, e più volte lo udii lodare ad alta voce la cura con cui era stata realizzata una mappa o il disegno di una galera particolarmente valida per la sua conformazione. Vi dirò in breve che, passate alcune ore e persa quasi ogni speranza, sentii nuovamente la voce del timoniere. Non stava più meravigliandosi per un vascello o per un sestante, ma annunciava di aver probabilmente ritrovato il documento che stavamo cercando. Ci avvicinammo, e fu allora che vidi per la prima volta il quadrato. Riportava, come anticipatomi dal mercante, venticinque lettere. A voi, Padre Juan Pérez, affido le parole riportate in quelle caselle, sicuro che saprete giudicare se la cristianità sia in grado di venire a conoscenza del loro profondo significato, o se invece esse dovranno essere preservate per uomini che ci succederanno, e che sapranno comprenderle appieno. Disposte l'una sull'altra, le parole:
potevano essere lette indifferentemente da sinistra a destra o dall'alto verso il basso. Non si trattava né di latino, né di francese. Il mercante mi spiegò che poteva trattarsi di un idioma che univa a termini latini alcuni vocaboli della lingua italiana. Le varie parole, prese singolarmente, potevano avere un significato proprio; moria, mi spiegarono, poteva ricordare il passato del verbo "morire"; ovest sembrava abbastanza chiaro come termine, ma doveva essere inserito nel più ampio contesto della frase; rexol era assolutamente privo di un significato evidente (forse si trattava di un nome proprio); isola poteva banalmente riferirsi ad una terraferma circondata da acqua; atlas richiamava alla mente il nome della divinità greca di Atlante, ma la connessione non era affatto immediata, e si basava su una semplice consonanza.
Come riferitomi dal mercante, il quadrato sembrava riferirsi ad una terra a ponente di "qualcosa".
Lo ringraziai calorosamente per avermi mostrato quel documento, che rilessi più volte per imprimerlo nella mia mente. Egli si fermò nella sua abitazione fino a sera, e ripartimmo per Monfalcone quando la luna era già alta.
Dio volle che tre giorni dopo fossimo nuovamente a Genova, ov'io potei riflettere sugli elementi che da tempo stavo raccogliendo sulla possibile presenza di una terra ad ovest delle colonne d'Ercole. E passarono molti mesi prima di venir nuovamente convocato a bordo d'una nave mercantile. Mantenni rapporti epistolari con la Commissione portoghese presieduta dall'illustrissimo Diego Cortiz di Villegas, e seppi, così, che nei primi mesi del 1474 il fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli aveva finalmente inviato una lettera ed una carta da lui stesso disegnata al canonico portoghese Fernando Martins. In essa rendeva pubbliche le conclusioni cui eravamo giunti in tanti anni di supposizioni e dibattiti: la via dell'Ovest era la più breve per raggiungere le Indie.
L'ingente mole di materiale che avevo raccolto in anni di studi mi fornì quella perizia in fatto di arte marittima richiesta dal Circolo della Navigazione di Genova a coloro che avessero desiderato prender parte alle riunioni ed associarsi al gruppo. Dopo aver partecipato ad alcuni dibattiti dedicati alla cartografia e al possibile utilizzo di clessidre per determinare la longitudine, chiesi agli altri membri licenza di proporre una questione su cui dibattere: le teorie di Paolo dal Pozzo. Mai tema fu più vigorosamente discusso e dibattuto. Riconobbi in colui che più si infiammò il corsaro che aveva tentato di convincermi ad accompagnarlo nella sua azione contro la Fernandina sulle coste tunigine. Mi riconobbe, e volle avere un colloquio con me.
Ci incontrammo all'inizio del 1475, poco dopo l'arrivo della notizia che i portoghesi erano approdati in una zona dell'Africa centrale [23] ricca di miniere d'oro, coltivazioni di pepe e moltissimi schiavi. Uomo di ben formata e più che mediocre statura, di volto lungo e di guance un poco alte, senza che declinasse a grasso, o macilento [24], Cristobal Còlon mi apparve persona piacevole e graziosa quando voleva, iraconda e furiosa quando si corrucciava [25]. Nulla di rozzo v'era in lui, uomo che più volte avevo giudicato oltremodo temerario e irrispettoso per l'azione corsara in cui voleva coinvolgermi. E non vi stupisca, Padre, la descrizione che vi do di costui, perché nonostante non reputi tanto importante l'aspetto esteriore degli uomini che incontro, quanto invece la purezza del loro cuore e dei loro intenti, in lui vidi manifesti sul volto i tratti che sorgono da una personalità a un tempo razionale e impulsiva, insieme fortemente aperta alla conoscenza e alla fede nell'Onnipotente, al punto che, se aveva alcuna cosa da scrivere, non provava la penna senza vergar prima le parole Iesum cum Maria sit nobis in via [26].
Mi riferì che da tempo il pensiero di raggiungere le Indie navigando verso ponente lo stava scuotendo, e che da poco aveva ricevuto da Paolo dal Pozzo Toscanelli copia della lettera e della carta inviate a Fernando Martins [27]. Mi mostrò una pergamena scritta dallo studioso fiorentino, su cui comparivano le parole "A Cristoforo Colombo Paolo fisico salute. Io vedo il magnifico e grande tuo desiderio di voler passare là dove nascono le spezie, e per risposta alla tua lettera ti mando la copia di altra lettera che anni fa io scrissi ad un amico e familiare del serenissimo re di Portogallo." Gli domandai se possedesse la copia citata nella lettera, ed egli estrasse dal cassone un involto contenente decine di fogli ingialliti. Me ne porse uno di essi, e potei leggere le parole che mi indicò con il suo dito: "...rimetto, dunque, a Sua Maestà una carta fatta colle mie mani, nella quale si trovan disegnati i vostri lidi e le isole dalle quali il viaggio si dovrebbe incominciare, sempre verso occidente, e i luoghi ai quali si dovrebbe giungere, luoghi fertilissimi d'ogni specie di aromi e gemme. E non vi maravigliate se chiamo parti occidentali quelle dove sono gli aromi, mentre comunemente si chiamano orientali, poiché quelli che navigheranno continuamente a ponente, per mezzo della navigazione agli antipodi, raggiungeranno dette regioni, mentre se vi si va per la via di terra e rimanendo sempre nel nostro emisfero, si ritroveranno ad oriente".
I suoi studi sul regime dei venti atlantici rafforzarono in lui la convinzione che l'Oceano si potesse attraversare. Mi mostrò anche alcune carte ispirate a Tolomeo e alla teoria sull'equilibrio dei continenti. Esse lasciavano supporre l'esistenza di un continente sconosciuto a sud dell'Asia, in cui - a quanto si diceva - il sole faceva spuntare l'oro. Su un'altra mappa, tale terra era identificata con il Giardino di Eden. Accennò ad un viaggio che voleva intraprendere per risolvere alcuni dubbi e trovare prove da esibire ai monarchi europei al fin di ottenere finanziamenti per una spedizione verso ponente. Mi fece capire che avrebbe apprezzato la mia presenza durante quella spedizione, non solo per le mie funzioni sacerdotali, ma anche per la cultura di cui, Dio mi salvi dalla vanità, avevo dato prova durante i dibattiti sull'arte di navigazione. Ero sicuro che, tacitamente, egli volesse compiere tale viaggio a fianco di uomini che condividessero la sua fede nel tragitto ad Ovest verso le Indie. Vi sarete accorto, Padre, ch'io mai citai il manoscritto di Cîteaux a prova delle mie parole. Forse il timore ch'esse fossero fomite d'eresia, o molto più facilmente l'orgoglio d'esser l'unico depositario di un testo risalente ad ormai tre secoli fa, m'impedirono di parlare di pater Johannes e dell'Arcadia da lui ritrovata nelle sconosciute terre dell'Ovest. Ma vi assicuro, Padre, di non aver mai perduto la fede nell'infallibilità delle Sacre Scritture, né d'aver mai smesso di lodare il Nome dell'Altissimo per le meraviglie del suo cosmo e per l'infinita varietà dei rami, dei gruppi, delle classi, delle sottoclassi, degli ordini, delle famiglie, dei generi, dei sottogeneri, delle specie e delle varietà in cui aveva suddiviso ogni realtà creata, visibile e invisibile. E lungi dal destare in me perplessità, il pensiero di terre a ponente mi spingeva ad innalzare il mio canto di lode all'Onnipotente con ancora maggior vigore ed entusiasmo, quasi la presenza di regioni sconosciute giungesse a prova per la cristianità dell'infinita natura di Iddio Nostro Padre; come, infatti, la magnificenza dell'Altissimo era incircoscrivibile dalla nostra mente, così era per le terre emerse, mai conoscibili nella loro totalità. Per questi motivi, Padre, vi rassicuro sulla bontà dei miei pensieri circa una pergamena che, letta altrimenti, sarebbe diventata fomite di gravi ed insidiose eresie.
Ma il mio pensiero ritorni alla proposta che l'ammiraglio Cristobal mi fece. Egli fissò nei primi mesi del 1477 una possibile partenza per il viaggio verso le isole settentrionali di cui nei secoli passati parlò Tolomeo [28]. Fu piuttosto oscuro sul motivo per cui una spedizione del genere richiedesse due anni di preparazione. Seppi in seguito che, il 13 agosto 1476, egli si trovava a bordo di una nave corsara catalano-francese comandata dall'ammiraglio Casenove-Coullon. Nei pressi del capo San Vicente si consumò uno scontro tra l'imbarcazione e una flotta genovese. Volontà divina volle ch'egli riuscisse, in seguito ad un incendio occorso alla nave, a raggiungere la terraferma e a mettersi in salvo.
Ma dirò dei due anni che intercorsero tra l'incontro con Cristobal e la partenza per l'ultima Tile [29]. Se anche per lunghi mesi solcai le onde mediterranee e mi spinsi anche sulle coste africane, non rinunciai a sottrarre al sonno molte ore che dedicai, così, allo studio del quadrato del Rexol (così lo denominai, dalla parola più enigmatica che vi era contenuta, per distinguerlo dal più celebre quadrato del Sator). E solo in due occasioni mi accadde di scendere dalla nave in terra africana per esplorare l'entroterra; avvenne quando il paesaggio che mi si parava innanzi ricordava in qualche modo la "regione pianeggiante nei pressi della foce di un fiume" di cui mi aveva parlato il marinaio che aveva ritrovato il vaso greco. Ma alcun resto ritrovai che potesse anche solo ricordare un tempio eretto nel V secolo prima di Cristo dalla civiltà fenicia.
Non potevo, però, dimenticare l'anfora decorata dal disegno di un'isola ad ovest dell'Ispagna riportante le lettere talas, le cui lettere non erano altro che una permutazione di atlas. E secondo il marinaio, il disegno dell'anfora sembrava alludere a un'isola. Potevano coincidere l'isola talas con l'isola atlas?
Pensai di commettere un errore nel ricercare un Disegno che sottendesse i vari elementi di cui ero in possesso, un elemento unificatore dei frammenti ritrovati nei molti luoghi da me visitati. Ma la mente umana è naturalmente spinta a ritrovare legami sottili, impercettibili similitudini che riconducono due realtà ad una terza, che le comprende, le giustifica e le supera. Ed è per ciò che nulla è più buono di ciò ch'è trino, e se il nostro corpo ha membra singole e doppie ma mai triple, è segno evidente dell'imperfezione cui siamo condannati.
Ma, salva la validità di queste considerazioni, mi domandavo se stessi cercando qualcosa di reale o soltanto dando realtà ad un prodotto della mia immaginazione. L'anagramma ritrovato tra atlas e talas aveva un'esistenza precedente alla mia idea, oppure gli avevo dato vita io con un processo mentale di permutazioni?
Ma ancora il problema era posto in maniera erronea. Atlas era anagramma di talas ben prima ch'io ne permutassi le lettere. Ciò che mi domandavo era se un'intelligenza precedente la mia avesse già ritrovato questa connessione tra le due parole e l'avesse utilizzata su un'anfora e sulla chiglia di una nave in vista di un fine prestabilito.
Se la risposta fosse stata affermativa, avrebbe avuto significato la mia ricerca di un elemento unificatore, di un progetto di cui vaso greco e lastra di legno erano parte.
Vi propongo, Padre, queste riflessioni per darvi un'idea dello sconforto in preda cui mi trovai durante quei due anni che precedettero la spedizione nei mari del Nord. Avevo l'impressione d'essere alla ricerca di un'araba fenice sempre sfuggente, ed invidiavo la sorte dei volatili, che innalzandosi nell'aere potevano osservare la totalità delle terre sotto la volta celeste. Ma allontanai presto quest'inconvenienti pensieri, per il timore d'esser destinato a condividere la nefasta sorte d'Icaro.
Mi salvò da questi turbamenti una lettera che mi giunse da Lisbona. Lo studioso tedesco con cui avevo tante volte discusso dei miei studi, Martin Behaim, mi riferì d'aver trovato copia del Geos del filosofo Marcello, contemporaneo di Platone, riportante una racconto udito dai sacerdoti delle "terre del Nilo". Il Faraone avrebbe inviato una spedizione marittima verso le "remote miniere". Secondo lo storico greco, in un tragico naufragio perì l'intero equipaggio, ad eccezione di un uomo, che approdò su un'isola sconosciuta. Qui fu soccorso da un "drago d'oro", ultimo sopravvissuto di una stirpe di 75 draghi sapienti, sterminata da "una stella caduta dal cielo". L'uomo fu avvertito dell'imminente scomparsa della terra su cui si trovava, a seguito di un immensa inondazione che si sarebbe scagliata sulla floridissima isola. Egli riuscì a mettersi in salvo costruendo una solida nave e imbarcandosi per le coste dell'Egitto [30].
La lettura di questo resoconto, mi richiamò alla memoria le parole di Filone d'Alessandria, che predicava l'allegorismo come metodo che più profondamente penetra entro il senso nascosto dei miti e dei libri sacri. E se mai avevo rifiutato il drago rosso eptacefalo dell'Apocalisse [31], non volli affatto negare un sostrato di verità storica nel racconto riportato dal filosofo Marcello.
Analizzando nuovamente i molteplici dati collezionati in anni di studio, mi accorsi che si trattava dello stesso Marcello che sosteneva d'aver superato le Colonne d'Ercole e d'aver raggiunto un arcipelago di isole, ultime vestigia d'una terra sommersa da una catastrofe. Si trattava delle isole da cui pater Johannes aveva inviato il suo messaggio al pontefice?
Furono questi i pensieri, le aspettative, le riflessioni che occuparono i giorni che precedettero la spedizione oltre lo stretto che divide l'Ispagna dalle terre africane.
Lasciammo Genova il 21 febbraio 1477 [32], in una giornata molto calda nonostante la stagione. Si trattava del primo viaggio d'esplorazione da me compiuto.
La sola tensione che s'insidiava durante le navigazioni mercantili era quella che il carico potesse in qualche modo usurarsi per la presenza di acqua nelle stive, o che la mancanza del vento prolungasse eccessivamente la durata del viaggio; in tal caso i viveri e l'acqua sarebbero stati suddivisi in razioni sempre minori, con conseguente calo di energie vitali per tutto l'equipaggio.
Durante questo nuovo viaggio, tuttavia, si insinuò in me una forma di tensione completamente altra, mai vissuta né immaginata. La progressiva separazione da ciò che era il mondo da me conosciuto verso l'ignota linea dell'orizzonte occidentale, era un lento ma inesorabile addentrarmi in un labirinto sconosciuto senza l'ausilio d'un filo d'Arianna. Ogni mio pensiero era trasfigurato dalla temuta irreversibilità di ciò che stavo compiendo. Invertendo la rotta, saremmo con ogni probabilità tornati sui nostri passi. Ma un qualsiasi errore nella rilevazione della latitudine, ogni imprecisione nel calcolo delle distanze e della traiettoria si sarebbe rivelato forse troppo tardi per porne rimedio. Ci saremmo trovati, così, in un tratto di mare mai segnalato da alcuna carta, in un luogo dal quale non saremmo stati in grado di percorrere la via inversa.
Ed è con somma sincerità, Padre, che vi confesso i miei timori intorno all'ammiraglio Colón, il quale - già vi dissi - era stato in grado di dirigere un'intero equipaggio sulle coste algerine, senza che alcuno sospettasse nulla. Più volte mi avvicinai alla bussola, al fin di controllare l'assenza di magneti occultati, e volli personalmente compiere la maggior parte delle rilevazioni celesti con l'uso del quadrante. Così facendo, potei seguire in dettaglio il tragitto che, presumibilmente, seguimmo oltrepassate le Colonne d'Ercole. Abbandonammo la direzione ovest per costeggiare le terre portoghesi verso nord, e dopo alcuni giorni, invece di deviare a levante verso le coste francesi, proseguimmo verso settentrione. Sfumò, così, una segreta speranza che avevo di compiere una tappa intermedia a La Rochelle, ma forse fu Iddio a guidare il voler dell'ammiraglio. Poiché se nella città francese era sorto in me il desiderio di prendere il largo, ivi sarebbe forse anche svanito, vinto dalle tensioni che andavo accumulando e dal timore di violare confini posti dall'Onnipotente nel terzo giorno della Creazione, quando raccolse le terre e le separò dall'acqua.
In tal caso avrei forse abbandonato la spedizione, accusando probabilmente indisposizioni fisiche. Confesso con vergogna d'aver più volte pensato di pronunziar falsa testimonianza, nel caso in cui fossimo approdati a La Rochelle per rifornimenti, per abbandonare l'impresa che, forse in modo avventato, avevo deciso di affrontare. E fu per questa disposizione alla menzogna che Dio mi punì con una dissenteria molto violenta, la quale mi costrinse a letto per almeno dieci giorni. Il mio fisico, cresciuto in abbazie e conventi, non era in grado di assumere alcuni prodotti consumati a bordo, che invece trovavano consenso tra gli altri uomini dell'equipaggio.
Fu una penitenza indubbiamente meritata, che però incrementò ancor più i miei timori per l'impossibilità, che ne derivò, di seguire l'esatto percorso seguito dalla nave.
Mi sollevò il fatto che, nonostante le mie condizioni di salute, l'ammiraglio Colón mi aggiornasse continuamente sull'andamento degli studi, e più d'una volta mi propose di analizzare alcune tabule compilate con cura, sulle quali comparivano decine e decine di numeri relativi a correnti marine, a rilevazioni dei venti, a costellazioni stellari e alla fauna marittima incontrata. Fu difficile per me districarmi in mezzo a calcoli oltremodo complicati, nei quali, invece, Cristobal sembrava trovarsi perfettamente a suo agio. Lo vidi più volte adirato per l'imprecisione nell'uso del quadrante da parte di uomini dell'equipaggio. In queste situazioni, prendeva in mano lui stesso lo strumento, e rilevava personalmente distanze ed angolazioni, al fin di non commettere errori che avrebbero pregiudicato l'intera spedizione.
Se nella mia narrazione sono stato oscuro sulle finalità del viaggio che avevamo intrapreso, eccellentissimo Padre, questo è dovuto all'identica ignoranza ch'io avevo in quei giorni sulle terre che l'ammiraglio avrebbe toccato. Non fu prodigo di particolari nel definire i dettagli della spedizione. Ed io, con tutto l'equipaggio, fui tenuto all'oscuro della vera natura degli studi che Cristobal avrebbe compiuto. Ne nacquero voci d'ogni genere, più maligne che benigne a dire il vero. Incuriosito per la vividissima fantasia di cui sembravano dotati i marinai con cui mi ero imbarcato, ne interrogai parecchi, promettendo loro che non avrei rivelato ad alcuno i particolari che mi avrebbero confidati.
Seppi, così, che secondo una voce comune, l'ammiraglio era associato ad una confraternita per la quale compiva le esplorazioni. Altri mi riferirono che Cristobal apparteneva ad una famiglia che da secoli praticava la navigazione [33], e che aveva intrapreso la via del mare per vendicare un suo avo. E qui le interpretazioni fiorivano in modo impressionante. Secondo alcuni, un suo antenato era stato ucciso durante uno scontro navale; secondo altri sarebbe stato abbandonato sulle coste dell'Africa e lasciato morire insieme all'intero equipaggio; per altri ancora l'antenato di Cristobal sarebbe perito in seguito ad una violentissima tempesta che avrebbe distrutto l'imbarcazione a bordo della quale si trovava. Non mancava chi sostenesse che era stato divorato da mostri marini lunghi cento volte un cavallo...
Non era la prima volta che udivo marinai fantasticare sulle imprese del proprio ammiraglio. E non mi stupivo: lo stesso avveniva nei piccoli villaggi, in cui racconti fondati su qualche elemento di verità, passando di bocca in bocca, acquistavano mille diverse colorazioni a seconda di narratori, per trasformarsi in storie completamente differenti dalle originali, ma indubbiamente più affascinanti e curiose.
E la nave era un piccolo villaggio, in cui convivevano odi ed invidie, mitigati da un senso di solidarietà che sorgeva improvvisamente nei momenti in cui problemi maggiori colpivano indistintamente l'ammiraglio e l'ultimo marinaio.
Vi descrivo questi particolari, Padre, perché possiate rendervi conto anche voi di cosa significhi vivere per settimane sul quel microcosmo che è una nave.
Ma il mio discorso non si allontani dalle voci udite intorno all'ammiraglio, che presto verranno contraddette quando dirò della terra che avvistammo dopo quattro settimane di navigazione. Si trattava delle coste della Frixlanda [34], terra di cui nel passato aveva parlato Tolomeo. Cristobal ordinò che alcuni uomini restassero a bordo della nave, al fin di non interrompere la misurazione del tempo per mezzo delle tre clessidre di bordo. Ad altri ordinò di rilevare ad ogni ora la direzione del vento e l'intensità, da calcolarsi annotando l'angolo formato da un nastro di seta con l'asta metallica cui questo era fissato. Distribuì, in questo modo, un gran numero di tabelle da compilare, minacciando dure punizioni per chi non avesse eseguito gli ordini con cura. Agli uomini che sbarcarono, comandò di eseguire ispezioni del territorio circostante. Avrebbero dovuto segnalare la presenza di qualsivoglia iscrizione o simbolo prodotta da esseri umani. Fece calare dalla nave un grosso cassone che doveva aver tenuto celato nella sua cabina. Nessuno, seppi in seguito, ne conosceva il contenuto. Avvicinatosi a me, mi domandò di seguirlo. Fummo accompagnati da due uomini dell'equipaggio, che ci seguirono trasportando la pesante cassa. Ci inoltrammo in una folta vegetazione che partiva dal fondo della spiaggia su cui sbarcammo, e in pochi minuti raggiungemmo una radura al centro della quale sorgeva una roccia tondeggiante.
Posata la cassa a terra, i due marinai furono invitati ad allontanarsi. Cristobal mi rivolse la parola scusandosi per avermi tenuto all'oscuro così a lungo intorno alla natura degli studi che era venuto a compiere su quest'isololotto. Mi disse che aveva richiesto la presenza di un religioso a bordo della nave per potergli affidare tutte le conoscenze acquisite in anni di navigazione, affinché se anche un incidente lo avesse coinvolto, le verità cui era giunto non andassero disperse insieme alle sue spoglie mortali.
Mi supplicò di non rivelare a nessuno ciò che stava per dirmi, ed io gli promisi che avrei tenuto il massimo riserbo su qualunque cosa egli mi avesse riferito. Vi parrà, Padre, che con questo mio scritto io rinneghi la promessa fatta, anche quella di tacere i nomi di coloro le cui confidenze ricevetti. Ma se non fossi convinto del fatto d'essere l'ultimo uomo a poter rendere testimonianza dei luoghi che ho visitati, sicuro che mai più alcuno vi potrà mai accedere né potrà descriverli alla cristianità, non giustificherei affatto la relazione che ne sto dando. Sappiate, a mia parziale discolpa, che attesi il 20 maggio 1506, giorno in cui la morte colse l'ammiraglio, per intraprendere la scrittura di questo resoconto. Ed è per la profonda fiducia ch'io ho in voi, o Padre, che vi affido queste pagine, le quali potranno, a vostra discrezione, esser svelate all'intera cristianità, o custodite a salvaguardia di verità che potranno un giorno esser comprese da uomini che verranno dopo di noi.
Ma non proseguirò più oltre con queste giustificazioni, riportando invece fedelmente gli eventi descrittimi da Cristobal, con la speranza che la memoria mi assista e che la ricostruzione che ne darò sia il più possibile simile a ciò che realmente visse e udì nell'anno 1469, allorché si imbarcò a bordo della caravella Prometeo. Il capitano della nave era un basco di nome Aramburu, intorno al cui conto circolavano voci tutt'altro che rassicuranti. Di lui si diceva che avesse fatto un patto con il diavolo, o che avesse venduto la sua anima per ottenere misteriose informazioni. Pochi marinai accettarono di lavorare sulla sua nave. Tra costoro, primeggiava un nostromo inglese chiamato Devil Hoof Willy. Se davvero nomen est omen [35], Cristobal non si trovava affatto in buona compagnia.
Willy e Aramburu trascorrevano molte ore a discutere e, a dire di alcuni, a complottare. La caravella era "ufficialmente" diretta verso l'Asia, ma giunta all'altezza delle Canarie, il capitano diede ordine di cambiare rotta. La nave navigò verso nord-ovest, in un mare sconosciuto che - secondo l'equipaggio - conduceva ai confini del mondo. Il tentativo di ammutinamento venne immediatamente sedato dall'implacabile durezza di Aramburu, e la nave divenne teatro di una vera e propria carneficina. Il giovane Cristobal dovette assistere, suo malgrado, a ogni sorta di efferatezza. Pur con l'equipaggio decimato, la nave proseguì lungo la nuova rotta. Di tanto in tanto il capitano e il nostromo si chiudevano in cabina, a consultare una misteriosa carta nautica su cui Cristobal aveva sentito strane dicerie. Willy e Aramburu l'avrebbero presa in un luogo "proibito", dannando per sempre la loro anima. Dopo quasi due mesi di navigazione, quando ormai l'equipaggio era allo stremo delle forze, comparve la costa d'una terra sconosciuta. Si trattava di un arcipelago di isole di cui l'intera cristianità non aveva mai avuto notizia. Dopo che furono sbarcati, tra Aramburu e Willy scoppiò un furioso litigio. Con un colpo di scure il nostromo spaccò la testa al capitano, poi fece immediatamente salpare le ancore e riprendere la navigazione in direzione ovest, verso l'ignoto. Dopo alcuni giorni scoppiò una pestilenza che condusse ad un ammutinamento definitivo. Willy venne ucciso e gettato in mare, e la caravella cambiò rotta, prendendo la via del ritorno. Il giovane Cristobal e un gigante turco di nome Ahmed, che aveva preso il comando, si orientarono con le misteriose carte di Aramburu, ma dopo una vera e propria odissea, quando la nave era ormai vicina alle Canarie, scoppiò un terribile fortunale. La caravella si schiantò contro uno scoglio, e affondò insieme all'equipaggio. Solo Cristobal riuscì a salvarsi, portando con sé le misteriose carte nautiche. Egli era convinto che le isole raggiunte si trovassero al largo delle coste dell'Asia; su questa esperienza fondava la sua sicurezza che la terra fosse sferica. Lo studio delle carte nautiche di Aramburu, però, gli suscitarono alcune domande. Si chiedeva chi potesse aver disegnato carte così dettagliate di zone ancora sconosciute alla cristianità. Qualcuno doveva aver già esplorato le zone così accuratamente descritte, e la mia mente si rivolse immediatamente a pater Johannes.
Cristobal mi spiegò che sulle mappe nautiche non compariva l'arcipelago, bensì un'unica isola che comprendeva tutte le dieci terre emerse che incontrammo. Estrasse dalla cassa che aveva con sé una pergamena arrotolata, che svolse con cautela per non sgualcirla.
E vidi, a destra della terra descritta dall'ammiraglio, l'esatta descrizione delle coste europee e di quelle africane, sino alla Palestina e alle terre d'Egitto. Iscrizioni latine permettevano l'identificazione dei vari luoghi descritti. E tra gli altri, vi ritrovai il nome che tante volte era stato oggetto delle mie supposizioni e congetture. Il territorio della Grecia era definito Rex Olympii. Avevo ritrovato l'origine di quel rexol che mi aveva tanto indotto a riflettere. Prese forma nella mia mente un possibile significato che, così, acquistavano le parole del quadrato: morì ad ovest della Grecia l'isola Atlas. La mappa riportava effettivamente una territorio circondato dalle acque, nominato Rex Maris. Si trattava della terra di cui era rimasto soltanto l'arcipelago di dieci isole raggiunto dalla nave di Aramburu. Pensai potesse trattarsi dell'arcipelago raggiunto dal filosofo greco Marcello. La sua denominazione riportava alla mia mente l'anfora ritrovata sulle coste dell'Africa, riportante il disegno di un'isola identificata con le lettere talas, frammento del sintagma talassas teos, corrispondente al latino Rex Maris. Nessuna connessione con atlas, dunque, ma un'evidente legame con la terra della carta di Aramburu.
La distruzione in cui poteva essere incorsa, riportava la mia mente all'immane cataclisma descritto da Proclo e Platone, da Ammiano Marcellino e Teopompo, da Crantore di Soli e Posidonio d'Apamea, da Plinio ed Ecateo di Mileto, che avrebbe colpito una terra che si trovava oltre le Colonne d'Ercole.
La carta nautica riportava una sola grande isola; da ciò si deduceva che essa fosse stata realizzata precedentemente il cataclisma, oppure che si trattasse della copia d'una mappa precedente. Quest'ultima ipotesi era la più probabile. La fattura della carta, infatti, non sembrava affatto antica di secoli.
All'estremità sinistra della carta si trovava un'ulteriore ed estesissima terra, segnalata col nome di Quetzalcoatl [36]. Si trattava, con ogni probabilità, della costa orientale del Cathai.
Quanto più ragionavo su ciò che avevo davanti agli occhi e su ciò che avevo udito, tanto più ero affascinato dalla convinzione d'aver tra le mani la prova di tutto ciò che avevo congetturato per anni.
Ma non mi attarderò sulle emozioni che mi colsero a tali mirabili rivelazioni. Dirò, invece, che l'ammiraglio riprese a descrivere gli eventi che lo portarono ad intraprendere questa spedizione.
Negli anni successivi al 1469 continuò a navigare per conto della famiglia Di Negro, confessando d'aver preso più volte parte ad azioni corsare per conto del re Renato d'Angiò. Conobbe decine di marinai non solo italiani, ma provenienti da ogni parte della Francia, della Ispagna e del Portogallo. Tentò invano di ritrovare uomini che avessero lavorato con Aramburu, al fin di interrogarli sui viaggi precedenti compiuti dal capitano basco. Né riuscì a contattare alcun marinaio che avesse navigato con Devil Hoof Willy. Venne, tuttavia, a conoscenza di una storia narrata dai marinai durante le lunghe notti di guardia trascorse sui pontili. Raccontavano di una nave che aveva lasciato il porto di Genova e raggiunto i confini della terra. Da tale spedizione tornò soltanto un terzo dell'equipaggio. Tutti i superstiti furono interrogati su ciò che avevano trovato all'estremità occidentale del mondo, ma nessuno osò far parola di ciò che era apparso ai loro occhi. Tutti morirono senza lasciare alcuna testimonianza. Secondo molti marinai, esisteva la prova di questa spedizione in registri di navigazione custoditi nel porto di Genova. C'era assoluta discordia nella datazione di questo viaggio. Se qualcuno parlava dell'inizio del secolo come possibile data, altri sostenevano che tale spedizione fosse avvenuta prima del XII secolo.
Cristobal ricercò a lungo il registro di cui si parlava nel racconto, convincendosi che si trattasse soltanto di una leggenda. Ma l'incontro con un marinaio amalfitano gli fece cambiare idea. Costui gli riferì che nella seconda metà del XII secolo un suo antenato navigatore era partito da Genova a seguito di una spedizione organizzata da una potente confraternita religiosa di cui non specificò il nome. Dopo alcuni mesi, la nave con la quale era partito ritornò nel porto ligure, ma dell'equipaggio, composto da circa sessanta membri, erano rimpatriate soltanto 19 persone. Non si ebbe alcuna notizia dei quarantuno uomini dispersi. Tra questi ultimi si trovava l'avo del marinaio amalfitano. I famigliari dell'uomo contattarono alcuni dei marinai superstiti, ma da costoro non ebbero alcun aiuto. Questi, infatti, non sopravvissero più di qualche mese dal ritorno a Genova, e nel diario di Paolo, figlio dell'amalfitano scomparso, vennero descritti come "mutilati nelle membra e privi dell'uso della parola". Tale resoconto, compilato presumibilmente intorno all'anno 1169, era stato conservato dalla famiglia del marinaio incontrato da Cristobal, ed attirò l'attenzione dell'ammiraglio per la presenza di dati che avrebbero potuto chiarire la dinamica del viaggio compiuto da Genova nella seconda metà del secolo XII.
Paolo, purtroppo, non riportava la lista completa degli uomini dell'equipaggio, ma si limitava a segnalare i nomi di coloro che avevano fatto ritorno in patria. Nondimeno tale elenco risultava estremamente interessante, innanzitutto per la presenza di dati che permettevano di contattare i discendenti dei superstiti, ma ancor di più per i bizzarri nomi che vi comparivano.
Se, infatti, si trovavano "Antonio da Gaeta" e "Vincenzo da Sestri", non mancavano nomi come "Natzac da Tikal", "Copan da Palque" e "Votan Chivim da Qezalcolat".
L'ammiraglio Colón non poté fare a meno di ritrovare una notevole somiglianza tra la città (o il territorio) di Qezalcolat e il nome della terra all'estremo ovest della mappa di Aramburu, Quetzalcoatl. Questo particolare poteva soltanto significare che la nave di Genova era diretta verso le coste dell'Asia seguendo la via dell'ovest. Non potei non pensare alla spedizione di pater Johannes, il quale sosteneva di essere diretto da Genova verso Cadice, e di aver deviato dalla rotta originaria, raggiungendo, così, un'Arcadia sconosciuta che poteva identificarsi con l'arcipelago del Rex Maris o con il territorio denominato Quetzalcoatl.
Riflessioni simili nacquero nella mente dell'ammiraglio, che nonostante non possedesse il manoscritto di Cîteaux, aveva intuito la possibilità di raggiungere le terre della mappa di Aramburu.
Esisteva, però, una complicazione che avrebbe reso il viaggio molto più arduo di quanto apparisse. A prima vista non si trattava di impresa troppo difficoltosa raggiungere una regione ben segnalata su una carta nautica. Qualsiasi navigatore con un minimo di esperienza vi sarebbe riuscito. Ciò che rendeva arduo il compito di Cristobal fu un particolare che non avevo notato. La mappa, infatti, non era integra. Si trattava, infatti, di due frammenti accostati e cuciti l'uno con l'altro, tra i quali in origine doveva trovarsi una porzione di oceano ormai perduta. Era, dunque, impossibile misurare la distanza che intercorreva tra le coste portoghesi e l'isola del Rex Maris, in quanto era sconosciuta l'ampiezza del frammento di mappa perduto. Per questa ragione risultava arduo, se non impossibile, lo studio di una traiettoria che incontrovertibilmente avrebbe condotto all'arcipelago che ivi sorgeva. Domandai all'ammiraglio in che modo egli pensava di poter ritrovare le isole sulle quali era approdato otto anni prima. Egli mi disse che nel corso degli studi eseguiti con il turco Ahmed durante il viaggio di ritorno, ritrovò tra le carte di Aramburu un riferimento all'isola su cui in quel momento ci trovavamo: la Frixlanda. Sull'isola si sarebbe trovata una meridiana che, all'alba del giorno di equinozio primaverile, avrebbe proiettato l'ombra dello gnomone infisso nel suo centro verso l'esatta direzione in cui si trovava l'arcipelago.
Mi accorsi dell'eccezionale abilità dell'ammiraglio Cristobal, che era riuscito a sbarcare sulla terra di Frixlanda il 20 marzo, la sera immediatamente precedente l'equinozio di primavera, calcolando in modo eccellente i tempi che gli sarebbero occorsi per raggiungerla. Un minimo ritardo avrebbe compromesso l'intera spedizione. Capii immediatamente le intenzioni di Colón. Gli sarebbe bastato attendere la mattina successiva per annotarsi la direzione verso cui il sole avrebbe proiettato l'ombra della meridiana, che identificai con la roccia tondeggiante che avevo vista al centro della radura. Ci dirigemmo insieme verso tale costruzione, ed ammetto che ne rimasi un po' deluso. Non riportava alcuna iscrizione, alcun particolare che permettesse, a chi non ne conoscesse la funzione, di accorgersi che si trattava di un segnale lasciato per indicare l'esatta ubicazione dell'arcipelago. Aveva un diametro di circa due metri, ed al centro di essa si trovava un foro inclinato, all'interno del quale si sarebbe potuta introdurre un'asta metallica.
Cristobal aprì il suo taccuino, e mi mostrò un disegno da lui stesso realizzato. Si trattava di una copia della pagina di Aramburu nella quale egli aveva ritrovato il riferimento alla meridiana di Frixlanda.
Nel centro della pagina era riportata una descrizione della costa portoghese e delle terre a nord di questa. L'isola di Frixlanda era segnalata in rosso. A destra di questa, comparivano una 'T' rovesciata, e tre lettere 'S': la prima a sinistra, la seconda a destra, la terza in alto. Il disegno che si formava era il seguente:
Poco più in basso si trovava il simbolo , corrispondente alla costellazione dei Pesci.
Il messaggio che, con grande ingegno, l'ammiraglio ne aveva tratto era quello che mi aveva illustrato in precedenza. La 'T' rovesciata e le 'S' si riferivano ad una meridiana: le tre lettere erano le iniziali dei termini Sine Sole Sileo [37], la cui origine, Padre, vi sarà indubbiamente nota; la forma della "T", invece, ricordava la base di una meridiana su cui era fissato uno gnomone.
La presenza del simbolo dei Pesci non poteva che riferirsi all'equinozio, data in cui il sole sorge esattamente ad est davanti alla suddetta costellazione.
La funzione della meridiana non era espressamente descritta nelle carte di Aramburu, ma Cristobal, con una capacità di immaginazione florida quanto rigorosissima, aveva cercato di visualizzare nella sua mente l'alba del 21 marzo osservata dall'isola indicata in rosso. Il sole, sorgente ad oriente, avrebbe proiettato ad ovest l'ombra dello gnomone: da ciò dedusse che, con ogni probabilità, la direzione indicata dalla meridiana avrebbe segnalato la rotta da seguire per raggiungere l'arcipelago raggiunto otto anni prima a bordo della Prometeo.
E se mai foste tentato di apprezzare l'ammiraglio soltanto per l'acutissimo ingegno di cui era dotato, Padre, vi dirò di lui che estrasse dalla cassa che aveva portato con sé un messale che mi consegnò tra le mani. Si diresse, poi, verso la nave, e fece sbarcare l'intero equipaggio, affinché tutti potessero assistere alla celebrazione eucaristica. Si assicurò soltanto che un uomo rimanesse a bordo per controllare le clessidre.
Innalzammo un piccolo altare in pietra, e nel silenzio più sacro, le mie parole riecheggiarono nei cuori di tutti. E lessi le parole dell'Ecclesiaste
Magnificenza dell'empireo è il limpido firmamento,
e l'aspetto del cielo è una visione di gloria.
Il sole, mentre appare splendente all'orizzonte:
quale mirabile ornamento, opera dell'Altissimo!
A mezzogiorno esso infiamma la terra,
e dinanzi al suo calore, chi può resistere?
Grande è il Signore che l'ha fatto,
e ai cui ordini esso compie velocemente il suo corso. [38]
Ed innalzammo a Dio la lode somma con un salmo di Davide
Il cieli narrano la gloria di Dio
e il firmamento predica le opere delle sue mani.
Al sole ha innalzato il Signore una tenda,
ed egli, simile a sposo,
s'avanza lieto quale prode
a percorrere il suo giro.
Da un estremo del cielo ha la sua levata,
e all'altro estremo compie il suo giro:
nulla sfugge al suo calore. [39]
Invocammo l'Altissimo come nostra guida, con la preghiera di Mosé, in cammino verso la Terra Promessa
Tu farai entrare il suo popolo e lo pianterai sul monte della tua eredità,
luogo che tu hai fissato per tua dimora, Jahvé,
santuario che le tue mani hanno preparato, o Signore [40]
E sentii nascer dal cuore un canto di ringraziamento che proruppe dalle mie labbra senza ch'io quasi me ne accorgessi.
O Altissimo Padre Onnipotente,
che fai sorgere ad oriente la luce che ci illumina,
e la fai ridiscendere a ponente per donarci l'oscurità,
guidaci attraverso i flutti e le correnti
come guidasti nel deserto i figli d'Israele,
e fa' percorrere anche a noi,
che portiamo la luce dell'Evangelo,
la via seguita dall'astro del giorno.
Risplenda su tutta la terra la tua potenza,
e giunga anche in quei luoghi
ove il nome del Tuo Figlio e Nostro Signore Gesù Cristo,
è ancora sconosciuto.
Il nostro viaggio rifulga a maggiore Tua gloria,
e noi innalzeremo il Tuo nome
nei secoli dei secoli.
Vi riporto queste parole, Padre Juan Pérez, affinché vi cogliate il trasporto dell'animo con cui le pronunciai, spinto come fui, da ciò che avevo udito dall'ammiraglio, ad innalzare all'Altissimo una lode spontanea e magnifica.
L'intero equipaggio rispose con il rituale amen, ma credo che nessuno potesse aver compreso a quali terre sconosciute mi stessi riferendo. I più dovettero pensare alle regioni africane, in cui la cristianità ancora non si era diffusa.
Poco prima dell'alba del 21 marzo 1477 Cristobal scese dalla nave e si diresse verso la radura della meridiana, ordinando che nessuno lo seguisse. Vi confesso, Padre, d'esser stato ferito nell'orgoglio per non esser stato convocato dall'ammiraglio ad assistere al sorgere del sole. Ma con animo sgombro da rancori, innalzai all'Altissimo una preghiera di lode, affidando alla Sua Divina Provvidenza il compito di Cristobal Colón, dal cui esito sarebbe dipeso il successo della nostra missione. E non potei far altro che ripetere più volte fiat voluntas tua...
L'ammiraglio ritornò sulla nave dopo alcune ore, e diede ordine di riprendere la navigazione. Fu interrogato da alcuni marinai sulla direzione da seguire, ed egli allungò un braccio verso l'orizzonte, puntando verso sud-ovest.
Finalmente mi chiamò con sé nella sua cabina, e mi mostrò una carta disegnata da poco. Una lunga linea tracciata in direzione sud-ovest attraversava l'oceano partendo dall'isola che avevamo da poco abbandonato, e puntando verso l'ignoto. Egli non sapeva, infatti, quanto distasse l'arcipelago indiano né se davvero tale percorso vi conducesse.
Nei giorni che seguirono non fummo assistiti dalla buona sorte. Il vento che per una settimana ci spinse verso sud-ovest con una velocità elevata disparve senza ragione e la nave si trovò in balia delle onde per almeno dieci giorni. L'equipaggio incominciò a dare segni di irrequietezza, e più volte mi accadde di dover intervenire per sedare l'insorgere di liti tra marinai.
Non mi attarderò a descrivere la tensione che si accumulò in quei momenti. Dirò invece che l'ammiraglio Cristobal temette di perdere il controllo dell'equipaggio, e quasi senza dubbio fu il ricordo delle efferatezze cui assistette sulla Prometeo che lo spinsero ad invertire la rotta e tornare verso le coste europee.
Allora come oggi non pensai che l'ammiraglio volesse, con quel gesto, abbandonare la speranza di raggiungere, un giorno o l'altro, le terre dell'ovest. Rimasi, però, turbato per l'inversione di rotta. Forse non era dovuta soltanto all'irrequietezza creatasi a bordo. Non seppi mai, Padre, cos'altro potesse aver turbato Cristobal, anche se il viaggio di ritorno mi fece formulare alcune ipotesi intorno al suo comportamento.
Giunti a poche leghe dalle coste portoghesi, infatti, ordinò che ci si dirigesse verso nord. Il comportamento inspiegabile dell'ammiraglio non fu accolto con favore dagli uomini equipaggio, che domandarono ragione di questa deviazione. Cristobal promise che avrebbe mostrato loro qualcosa di mai visto dagli occhi degli europei. Sono ancora convinto che non fu tanto questa promessa, quanto quella che la deviazione avrebbe allungato il viaggio soltanto di dieci giorni, a convincere l'equipaggio di seguire l'ammiraglio. E così fu.
Dapprima pensai che volesse ritornare sulla terra della meridiana; poteva, infatti, aver invertito la rotta dopo essersi accorto di un errore nella rilevazione della traiettoria. Ma questa ipotesi crollò nel momento in cui mi accorsi che sarebbe stato del tutto inutile tornare sull'isola di Frixlanda: per procedere ad una ulteriore rilevazione, avrebbe dovuto attendere il prossimo equinozio.
La nave, infatti, superò l'isola sulla quale eravamo già sbarcati, proseguendo verso nord. Cristobal mi rivelò che si stava dirigendo verso le coste inglesi [41], e quando gli domandai motivo di questa deviazione inaspettata, egli mi disse che durante la navigazione dall'isola della meridiana verso sud-ovest aveva attraversato alcune correnti marine che sembravano giungere dal lontano e sconosciuto occidente e, secondo le sue rilevazioni, dovevano lambire le coste inglesi. Egli pensava che, se davvero a ovest ci fossero state le Indie, qualche oggetto da là proveniente poteva aver attraversato il mare oceano ed esser giunto alla deriva proprio sulle spiagge verso le quali erano diretti. Non specificò la natura degli oggetti che pensava di ritrovarvi. Mi confidò soltanto che la speranza di rinvenire qualcosa era molto forte: non sarebbe stato in grado, altrimenti, di giustificare ai marinai la deviazione compiuta.
Nel sesto giorno ancora non comparivano terre all'orizzonte. Al tramonto la nave entrò in un tratto di mare sulla cui superficie galleggiavano molte alghe e vegetali marini. Fu un marinaio a notare, sul fianco destro della nave, la presenza in acqua di alcune assi di legno unite da un metallo ricurvo. Dapprima la scoperta non destò stupori. Poteva trattarsi di un frammento appartenente ad una nave o ad una cassa costruita dagli inglesi. Durante la notte, un altro marinaio avvistò un grande pannello ligneo inciso a fuoco, riportante il disegno di un monte sovrastato dal sole, intorno al quale piccoli simboli volevano probabilmente indicare degli esseri umani. L'intero equipaggio si radunò sul pontile per osservare tali manufatti, e tale lastra attirò l'attenzione di tutti sinché il grido di un marinaio non richiamò tutti sul fianco sinistro della nave. L'oscurità non permetteva di osservare nei particolari ciò davanti cui si trovavano, ma il buio non era tale da non consentire di riconoscere nell'oggetto galleggiante sull'acqua un corpo umano.
I suoi lineamenti erano differenti da quelli di qualunque altro uomo esistente nel nostro mondo. E non era certo la consunzione delle membra a donare a quel volto una fisionomia così particolare e sorprendente. I marinai si ritrassero inquieti, pensando al cadavere di un demonio. L'ammiraglio ordinò che il corpo venisse recuperato dalle acque. Si calarono due uomini, i quali poterono avere una visione più precisa del cadavere. Essi si accorsero che si trovava adagiato all'interno di una rudimentale zattera, la quale gli aveva impedito di andare a fondo. Furono gettate due corde che gli vennero assicurate al collo e alle caviglie. Non fu difficile sollevare l'uomo, in quanto si trovava in stato di rigidità cadaverica ed era interamente ricoperto da scaglie di ghiaccio che lo rendevano ulteriormente rigido.
Nessuno osò toccare quel corpo, che fu adagiato sul pontile della nave provocando un rumore sordo. Cristobal rassicurò gli uomini dell'equipaggio, dicendo loro che non si trattava di un demonio né di uno spirito del mare; l'uomo veniva dal Cathai, ed era stato trasportato in quel luogo dalle correnti del mare oceano [42]. Se molti marinai erano a conoscenza delle teorie di Paolo dal Pozzo intorno alla possibilità di raggiungere le Indie navigando verso ovest, il corpo davanti a cui si trovavano rendeva questa teoria non soltanto probabile, ma una sicurezza. A bordo della nave l'entusiasmo per il ritrovamento crebbe, e furono in molti a sognare laute ricompense per aver portato in Europa la prova di un fatto che avrebbe sconvolto l'intero traffico marittimo del mondo.
I dieci giorni, nei quali secondo la promessa dell'ammiraglio si sarebbe svolta questa deviazione, diventarono due settimane, ma l'attenzione degli uomini dell'equipaggio era tutta rivolta al "cinese" che avrebbe assicurato loro una ricchezza pochi giorni prima insperata.
Rientrammo nel porto di Genova il 23 aprile, e ricordo in modo particolare il saluto con cui mi congedai da Cristobal Colón. Mi avvicinai a lui, ed egli con grande serietà alzò una mano al livello del volto. Poi l'abbassò, e chinando la testa, chiese la mia benedizione. Sollevando il capo, si assicurò ch'io non riferissi ad alcuno ciò che avevo udito durante quel viaggio, ed io chinai il capo chiudendo gli occhi. Quando li riaprii lo vidi allontanarsi. Era mia opinione che non ci saremmo più rivisti. Mi sarei accorto in seguito che la Volontà Divina è ben lontana dal seguire la logica degli uomini.
Vi dirò, Padre Juan Pérez, che la mia mente era molto confusa, e tentavo con difficoltà di connettere i vari fatti cui avevo assistito e che mi erano stati rivelati dall'ammiraglio.
Che cosa si trovava a levante delle colonne d'Ercole? La mappa di Aramburu e il cadavere ritrovato sembravano indicare che ad ovest si trovassero le Indie, con il regno del Gran Cane e le terre del Cathai. La stessa mappa riportava una vasta isola a sud-ovest delle coste portoghesi. E il viaggio della Prometeo era approdato ad un arcipelago che poteva corrispondere all'isola segnalata sulla carta: si trattava forse dei resti di un cataclisma che in un lontano passato l'aveva distrutta.
Paolo dal Pozzo aveva ragione: le Indie - denominate sulla mappa con il nome di Quetzalcoatl - erano davvero raggiungibili navigando verso ovest.
Tra l'Europa e le Indie, però, si trovava nel passato un territorio, il Rex Maris, di cui rimase soltanto un arcipelago, forse in seguito ad un cataclisma che lo fece sprofondare negli abissi.
Ma continuavo a chiedermi dove fosse giunto pater Johannes. Forse nelle Indie. Eppure Marco Polo non descriveva uomini dalla pelle rossa. Forse nell'arcipelago già raggiunto da Colón. Eppure l'ammiraglio non aveva notato alcun abitante sulle isole da lui toccate. Mi trovavo in una situazione in cui ogni ipotesi sembrava più assurda della precedente, e non riuscivo a mettere insieme i moltissimi elementi fino ad allora accumulati.
Che cosa mi stava chiedendo l'Onnipotente? Per quale ragione mi aveva eletto custode del manoscritto di pater Johannes? Quali gesti avrei dovuto compiere, per adempiere la sua volontà?
Non possiedo la sicurezza d'aver sempre agito Ad Maiorem Dei Gloriam, ma posso assicurare alla vostra eccellenza che ogni giorno la mia lode per le meraviglie che l'Altissimo mi faceva pregustare si alzava solenne, la mia ammirazione il cosmo non aveva più limiti, e dal Creato risaliva all'Artefice che lo aveva plasmato.
Non è, dunque, per orgoglio intellettuale, quanto invece per sete di verità, che decisi di mettermi in contatto con i discendenti degli uomini che ritornarono dalla missione del XII secolo oltre le Colonne d'Ercole. Possedevo già copia della lista tratta dal diario di Paolo d'Amalfi, ed attesi che Enrico Spinola mi convocasse per una spedizione mercantile. Fui inviato a Lerici, e da qui potei raggiungere in meno di due ore Muggiano, ove secondo la mia lista era nato il marinaio Stefano del fu Matteo. Non mi fu difficile, nel minuscolo centro abitato, trovare i discendenti dell'uomo. Mi spiegarono che l'unico ricordo che avevano di lui era la lapide nel piccolo cimitero, recante una scritta che la tradizione voleva avesse deciso lui stesso, poco prima di morire, riportandola su un foglio di carta che si trovava accanto al suo letto. Fui accompagnato alla tomba, e notai che sulla pietra levigata erano incise delle lettere. In origine, dentro gl'incavi dei vari caratteri doveva esservi dell'inchiostro nero. La mancanza di colore rendeva indistinguibili le parole dallo sfondo della pietra, così che dovetti raccogliere della terra e spalmarla sulla lapide, affinché le lettere ne emergessero per il colore scuro del fango rimasto nelle cavità.
Levigai la superficie con il palmo della mano, ed apparve l'epigrafe che Stefano aveva voluto per sé:
S. X VOI LA SOLA STORIA È LA MORTE
Mi interrogavo sul significato che potevano avere quelle parole? La 'S' iniziale si riferiva evidentemente al suo nome, ma il resto della frase era davvero sibillino. Per quale motivo un uomo in fin di vita avrebbe dovuto decidere quale frase incidere sulla propria lapide funeraria? L'unica ragione che mi veniva in mente era che volesse lasciare un messaggio a chi fosse stato in grado di decifrarla. Gli strumenti di cui ero in possesso, però, non mi permettevano di ritrovare un senso nascosto in quelle parole.
Tornai al porto di Lerici, donde la nave salpò in serata, giungendo a Genova a notte fonda. Decisi di dedicare l'intero anno successivo ad escursioni nei dintorni di Genova, ove avrei ricercato ciò che i superstiti del viaggio del XII secolo avevano lasciato prima di morire. In rispetto dei molti che mi accolsero con benevolenza, aiutando i miei studi e fornendomi materiale prezioso per le ricerche che stavo compiendo, ometterò i nomi dei molti villaggi visitati durante tutto quel mese di maggio, sacrificando il rigore della cronaca all'accuratezza con cui riporterò i dati di cui entrai in possesso.
Mi fu riferito dai discendenti di uno dei marinai superstiti che egli, prima di morire, aveva versato un'ingente somma di denaro a favore della cappella del luogo. A memoria di questa donazione, era presente nella chiesetta una lapide muraria, su cui compariva l'iscrizione:
O SORTE, SARÀ LA VOLTA X L'ESIMIO
Nuovamente mi interrogai sul significato di quelle parole. Notai come fattore comune delle due iscrizioni ritrovate, la presenza di una 'X' che sostituiva il termine italiano "per". Celiando, mi chiedevo x quale motivo il donatore si definisse "esimio". Era alquanto bizzarro che il benefattore di una piccola cappella lasciasse una lapide del genere, la quale non conteneva alcun riferimento evidente né alla somma versata, né alla causale, né ancora al nome del donatore. Di nuovo, capii che doveva trattarsi di un messaggio il cui senso, però, mi sfuggiva.
Uno degli uomini ritornati dalla spedizione era sacerdote. Contattai il parroco del villaggio ove egli probabilmente era vissuto prima di intraprendere il viaggio per mare, e costui dovette consultare gli archivi prima di riferirmi che il sacerdote era deceduto nell'ottobre del 1168, proprio nei locali ove mi trovavo. Mi disse che sarebbe stato possibile accedere ad alcuni documenti risalenti proprio a quegli anni. Mi vietò di toccare qualsivoglia pergamena contenuta nel ricchissimo armadio a muro, ed io lo osservai a lungo nella sua ricerca. Estrasse un enorme volume, all'interno del quale era descritto l'arredamento della chiesa, costruita nel secolo XI. Nell'angolo in alto a destra si trovavano riportate alcune date, nelle quali erano state apportate delle modifiche o aggiunte decorazioni, queste ultime dettagliatamente descritte nella zona centrale delle pagine. Giunse ad una pagina che riportava la data del 1167. Accanto al nome del sacerdote si trovava una lista di statue da lui fatte erigere, e la dicitura fenetra prophetae Ionas [43]. Ne presi nota, e raggiunsi la chiesa cui si riferiva il grosso tomo. Delle statue non c'era più traccia. Scorsi, invece, nella navata di destra la "finestra di Giona": accanto ad una imbarcazione ridotta in frammenti, il profeta si gettava nelle fauci di un enorme animale acquatico. Sotto la scena, compariva un nastro riportante a destra la data del MCLXVII, a sinistra la scritta
O ALIA MORS, ILLA VOX EST SORTÆ
La frase non aveva alcun significato. L'invocazione ad una "altra morte" era seguita da quattro parole che potevano voler dire "quella voce è sorta". Ma in questo caso sarebbe dovuto comparire sorta, non sortæ. Non si trattava di un riferimento biblico, né trovavo alcuna connessione con la storia del profeta Giona.
Eppure mi sembrava di ritrovare un filo comune che legasse tutte le iscrizioni ritrovate sinora. Percepivo un'unica intenzione espressa in punto di morte da quegli uomini che, secondo la tradizione, erano giunti a misteriosi "confini del mondo". Ma, a differenza di quanto avevo letto sul diario di Paolo d'Amalfi, ognuno di loro sembrava aver lasciato un messaggio in codice per rivelare qualcosa.
Era il caso di un mercante che viveva nell'entroterra genovese. Dopo più di tre secoli, i suoi discendenti svolgevano ancora l'attività dell'antenato. I registri che compilavano con meticolosa precisione risalivano all'XI secolo. Nonostante non sapessero nulla dell'avo navigatore, ritrovarono parecchi riferimenti a lui nelle carte dei primi anni del XII secolo. L'elenco relativo al mercante riportava una gran quantità di contrattazioni trattate dalla sua compagnia di commercio. Ognuna era contrassegnata da un numero romano, seguito dalla descrizione dell'entità del carico. Tali contrattazioni si interrompevano nel 1164. Dopo alcune righe lasciate in bianco, compariva la data del 1167 accanto al riferimento ad un bizzarro 66° carico, la cui entità lasciava estremamente perplessi:
LXVI. L'ASSOLATO AMORE È STORIA
Comprenderete, Padre, quanto fossi disorientato davanti a tanti messaggi così contraddittori ed enigmatici, il cui Senso appariva impalpabilmente sfuggente.
Un'iscrizione di tutt'altro genere ritrovai in un paese della costa ligure di ponente. Sulla superficie di un pilone che compariva nei pressi della chiesa del paese, era stata riprodotta, per conto di uno dei marinai superstiti, una scena in cui Nostro Signore, a bordo di una barca, placava la tempesta che stava infuriando sul lago di Genèzaret [44]. Sulla chiglia della nave si notavano alcuni caratteri che formavano una iscrizione ancora più bizzarra di quelle in cui mi ero imbattuto in precedenza:
A.E.I.O.U.
A.E.I.O.U.
A.E.I.O.U.
Nella lingua italiana, Padre, le vocali sono soltanto cinque. In tale messaggio, esse comparivano in sequenza per tre volte. Doveva esserci un motivo per cui l'autore desiderava che il messaggio fosse letto per ben tre volte. Anche il fratello del marinaio che aveva commissionato il dipinto si trovava a bordo durante quella spedizione. Era ancora ricordato dall'attuale parroco del paese come esempio di virtù e pia condotta. Si raccontava che, al ritorno da un viaggio compiuto per mare, era diventato irriconoscibile. Non era più in grado di comunicare, e sua unica attività consisteva nella compilazione di una raccolta di brani delle Sacre Scritture frammiste a farneticanti invocazioni e frammenti di pensieri senza un senso logico evidente. Il diario che, così, si era venuto a formare, era stato bruciato dopo la sua morte, poiché avrebbe indubbiamente macchiato l'immagine che i compaesani avevano dell'integerrimo chierico e il contenuto dello scritto non avrebbe certo giovato alle anime dei fedeli. Provvidenza volle che alcune pagine non subissero le fiamme purificatrici: riuscii ad ottenerle dai discendenti del chierico, i quali le avevano conservate in segreto come frammenti di un messaggio più ampio, cui forse non si sarebbe mai risaliti. Non si trattava né dell'incipit, né della conclusione:
...su di me la tua c_llera, le onde mi sommergono. Su di me passa il tuo furore, i tuoi spaventi mi annientano. Come acqua mi somme_gono tutto il giorno, da ogni parte mi avvolgono [45]. Precipitano _cque impetuose di cascata in cascata; su di me sono passate le tue onde [46]. Salvami, o Di_: l'acqua mi arriva alla gola. Affondo in un mare di fango, non ho più un punto d'appoggio; sono caduto in acqu_ profonde, la corrente mi trascina via! _trappami dal fango, non lasciarmi affondare, liberami dalle acque profonde! Non lasciarmi travolgere dalle corren_i, non farmi inghiottire dall'abisso e su di me non si chiuda la tua fossa! [47] Tu domini l'o_goglio del mare, plachi il tumulto delle onde [48]. Ti ho chiamato, o Signore, e tu mi hai dato risposta. Dal profondo degli inf_ri ho invocato aiuto, e tu hai udito la mia voce. Mi hai gettato in fondo al mare, l'acqua mi ha s_mmerso, le tue onde sono passate su di me. L'acqua mi è _alita fino alla gola, il mare mi ha ricoperto completamente, le alghe mi hanno avvolto la testa. Sono sceso fino alle radici dei monti nella terra che imprigi_na per sempre. Ma tu, Signore Dio Mio, mi f_rai uscire vivo dalla fossa. Quando ho sentito venir meno la mia vita, ho pregato te, Signore, e dal tuo tempio s_nto tu mi hai sentito [49] e risposto: "Dov'eri tu, quando gettavo le fondamenta della terra? Lo sai chi ha deciso le sue dimensioni e ha tracciato i suoi confini? Su che cosa si fonda la terra? Chi ha racchiuso il mare en_ro i suoi confini, sin dal suo nascere, quando venne alla luce? Dov'eri quanto lo fasciavo con la fitta nebbia, lo vestivo di nuvole, gli fissavo i confini, e lo richiudevo entro porte sbarrate? Gli ho detto, 'Tu arriverai fin qui e non oltre, qui si fermerà l'impeto delle tue onde'. Sei m_i sceso fino alle sorgenti del mare o hai passeggiato sul fondo degli abissi? Hai visto i depositi della grandine che io conservo pel momento della sciagura? Puoi far sentire la tua voce alle nuvole perché ti coprano di abbondanti piogge? Sei capace di farti ubbidire dai fulmini, di farli partire ai tuoi ordini?" Ti risposi "Io so che puoi tutto. Nulla ti è impossibile" [ 50]. Proclamavano "Atlas Erit In Orbe Ultima", ma nella tua onniscienza, già sapevi che Atlas Erit Imperio Orbata Undique. "Fate pure festa, saltate di gioia, come vitelli su un prato, come stalloni che nitriscono" [51] dicevi loro. "Atlas Est Imperare Orbi Universo" hanno scritto sulle porte della Città. Ma tu li hai sommer_i nelle acque, i soldati migliori annegarono nel mare. Le onde li ricoprirono: sono andati a fondo come pietre. Potente e terribile è la tua mano, Signore, la tua destra stende [52]...
Avrete riconosciuto, Padre, un'inquietante mosaico di versetti, di parole inspiegabilmente incomplete, che sembrano alludere dapprima ad un naufragio, e in seguito ad una catastrofe marina abbattutasi su una qualche città, il cui nome già avevo incontrato nel quadrato del Rexol: Atlas. Particolare che ancor più mi fece rabbrividire fu la scoperta della ciclicità di tale frammento, dalla cui conclusione ci si poteva ricollegare all'inizio creando un nuovo e terribile effetto di senso. Il manoscritto dava spiegazione anche delle strane lettere incise sul pilone votivo dal fratello del chierico. Si trattava di acronimi indicanti tre differenti frasi: Atlas Erit In Orbe Ultima, Atlas Erit Imperio Orbata undique, Atlas Est Imperare Orbi universo. [Atlas sarà l'ultima civiltà a morire, Atlas sarà spogliata dal suo impero da tutte le parti, ad Atlas spetta di comandare su tutto il mondo. NdT.]
Quest'ultima testimonianza mi convinse del fatto che il viaggio "ai confini del mondo" era approdato all'isola di Atlas, da identificarsi con ogni probabilità con l'arcipelago di dieci isole denominato Rex Maris.
Compresi il significato di ogni messaggio in cui, per la via, mi ero imbattuto, quando giunsi in un piccolo villaggio di pochi pescatori della riviera di levante. In un cippo fatto erigere come recinzione del suo campo, uno dei marinai superstiti aveva inciso con uno scalpello una figura da me già conosciuta: il quadrato del Rexol. Fu forte l'emozione provata nell'istante in cui lo scopersi, e come colto da un'illuminazione improvvisa, mi si fece chiaro nella mente il Senso del Messaggio che i pochi superstiti di quell'equipaggio volevano lanciare a chi fosse vissuto dopo di loro.
La lapide di Lerici, l'iscrizione nella cappella, la vetrata di Giona, il registro del mercante, tutti riportavano, codificato in complessi anagrammi, il quadrato del Rexol. Ogni sequenza di parole era composta da venticinque simboli, che adeguatamente rimescolati, avrebbero fornito l'esatta configurazione del quadrato. Potrete voi stesso, Padre, assicurarvi della verità delle mie affermazioni, constatando che le iscrizioni, private di accenti e segni di interpunzioni, si riducono a semplici sequenze di lettere permutabili a piacere...
SXVOILASOLASTORIAELAMORTE
OSORTESARALAVOLTAXLESIMIO
OALIAMORSILLAVOXESTSORTAE
LXVILASSOLATOAMOREESTORIA
per ricreare l'originaria
MORIA OVEST REXOL ISOLA ATLAS
Congetturai - ma ancor oggi non ne possiedo la sicurezza - che la nave dalla quale ricavarono i cassoni inviati a Venezia, sul fondo di uno dei quali era inciso il quadrato, fosse proprio quella che aveva condotto l'equipaggio verso il lontano arcipelago dell'oceano, o che forse ne aveva riportati in patria quasi un terzo. Già durante il viaggio di ritorno essi avrebbero escogitato un modo per lasciar testimonianza di ciò che avevano visto, e avrebbero lasciato traccia del loro passaggio incidendo, sulla nave che li ospitava, copia del quadrato del Rexol. Non riuscivo a spiegarmi in che modo essi, in particolare il chierico, potessero riferirsi all'isola di Atlas, di cui poterono avvicinare solo le rovine. Nelle tre sequenze vocaliche sembrava racchiusa l'intera storia dell'isola, che mostrava sempre più caratteri in comune con le isole oltre le Colonne d'Ercole descritte dai greci antichi: Atlas sarebbe stata l'ultima civiltà a morire [Atlas Erit In Orbe Ultima], pensavano i suoi abitanti, e le sarebbe spettato di comandare su tutti gli altri popoli [Atlas Est Imperare Orbi Universo]. Platone raccontò che l'isola da lui descritta venne affondata nell'oceano dalla furia degli déi pagani quando gli abitanti si ritennero superiori agli déi stessi. Era lo stesso messaggio contenuto nelle parole del chierico: gli abitanti di Atlas non sapevano che sarebbe stata spogliata dal suo impero da tutte le parti [Atlas Erit Imperio Orbata Undique], annientata dalla potenza dell'Altissimo. L'isola del Rex Maris della carta di Aramburu, dunque, era esistita davvero. E per quale motivo il chierico aveva omesso da alcune parole delle lettere? Non era difficile risalire al testo originario, ma se avevo congetturato che potesse essere celato un messaggio nelle lettere mancanti, mi accorsi di aver commesso un errore. Lette nell'ordine, restituivano la enigmatica sequenza O R A O E S T R E O S O A A T A S, cui difficilmente era stato assegnato un significato.
In seguito a queste riflessioni, provavo un senso di inquietudine ad osservare il quadrato del Rexol; in tale Messaggio dei superstiti leggevo un grido disperato, quasi un appello a ritrovare l'isola di Atlas, morta, ovvero distrutta, ad ovest della Grecia, o in senso più esteso, del Mediterraneo. Mi interrogavo sul motivo per cui essi avessero chiesto l'intervento della cristianità in tali terre. E ancora, sulla ragione per cui soltanto in diciannove riuscirono a tornare - e coloro che lo fecero, sopravvissero ben poco. Non ero in grado di immaginare che cosa fosse in corso nelle lontane terre occidentali: le misteriose terre indiane e l'antistante arcipelago deserto ove sorgeva l'isola di Atlas.
Eccellentissimo Padre, era Iddio a convocarmi? Era la sua Divina Volontà a chiamarmi a quelle terre, ove soltanto la voce di pater Johannes e dei suoi fedeli si innalzava a lode e gloria del Suo Nome?
Vi accorgerete che queste mie riflessioni sorgevano in un periodo in cui la cristianità tutta era all'oscuro della sfericità della terra, e dunque era per me improponibile qualsivoglia discussione con uomini di Chiesa.
Fu il Signore ad indicarmi la via da percorrere. Negli anni che seguirono il viaggio compiuto con Cristobal Colón, spesi nello studio delle testimonianze lasciate quasi tre secoli prima da marinai che s'erano spinti verso terre lontane e sconosciute, ricevetti alcune notizie dal Portogallo. Venni a conoscenza del fatto che l'ammiraglio genovese si era trasferito, nell'autunno del 1477, a Lisbona. Qui, nel 1479, aveva sposato la sorella del governatore dell'isola di Porto Santo [53], dove si era trasferito. Nel breve periodo trascorso nella capitale portoghese aveva sicuramente preso contatti con la Giunta dei Matematici. Rodrigo Vizinho, infatti, mi scrisse d'aver conversato con un "navigatore italiano, tale Columbus, che diceva di aver compiuto sì tanti studi da possedere la pressoché certezza della possibile rotta a ponente per le Indie. Egli - proseguiva la lettera - s'era trasferito a Lisbona per eseguire studi sul regime dei venti atlantici, ed aveva osservato alcuni pezzi di legno trasportati dalla corrente, pini di tipo sconosciuto nella regione, alcuni tronchi lavorati con attrezzi non metallici, e piante né africane né europee." In una lettera successiva, Rodrigo affermava di aver udito d'un monastero poco distante dalla costa atlantica, in cui erano tenute in gran conto le speculazioni scientifiche ed era incoraggiato nei chierici l'interesse per l'astronomia e le sue applicazioni alla navigazione. Si trattava del monastero in cui tuttora mi trovo. Mi fece il nome di padre Antonio de Marchena, che contattai prontamente al fin d'ottenere un trasferimento qui a La Rabida. Congedai la famiglia La Spinola dopo 8 anni di collaborazione assidua, e raggiunsi il monastero nel febbraio del 1481. Fu qui che vi incontrai per la prima volta, Padre Juan Pérez, presentato a voi dal mercante Enrico come padre Armanio da Castellón de la Plana. Voi mi chiedeste di elencarvi i motivi per cui desideravo esser accolto a La Rabida, ed io vi illustrai in breve i miei studi compiuti a Lisbona con la Giunta dei Matematici. Soltanto ora, Padre, vi accorgerete di quanti particolari vi nascosi allora, e questa mia lettera a voi è segno del mio pentimento sincero per avervi tenuto all'oscuro di tanti miei viaggi e tante mie riflessioni, che mi portarono, gli anni successivi, a raggiungere luoghi che mai più uomo visiterà.
Credo di non potervi mai ringraziare quanto si dovrebbe per l'accoglienza che mi faceste trovare nel monastero. Fui immediatamente coinvolto nelle conversazioni che si svolgevano intorno alla navigazione sulle coste dell'Africa, e ho un ricordo particolarmente vivido del giorno in cui padre Antonio de Marchena mi mostrò una copia stampata della Geografia di Tolomeo, pubblicata soltanto quattro anni prima [54]. O Padre, poiché voi avete già personale conoscenza di padre Marchena, vi parlerò soltanto delle confidenze che mi fece e dei molti momenti in cui i nostri studi furono condotti parallelamente. Trovai in lui un uomo dall'eccezionale acume e dalle conoscenze in campo astronomico veramente sorprendenti. Ci accorgemmo che, data la complementarietà del nostro sapere, se avessimo condiviso le nostre conoscenze avremmo perseguito entrambi enormi vantaggi. Mi sentii libero, dunque, di raccontargli ogni particolare dei miei studi e delle mie spedizioni marittime, mantenendo il più stretto silenzio sulle confidenze ricevute da Colón sull'isola di Frixlanda. Egli rimase affascinato in modo particolare dalla figura dell'ammiraglio Cristobal, ed è forse in seguito alla descrizione che di lui gli feci, che divenne un sostenitore fedele e strenuo dei viaggi che Colón voleva intraprendere [55].
Padre Antonio mi riferì che la morte di re Alfonso V [56] e la salita al trono di Giovanni II apriva nuove prospettive su possibili finanziamenti da parte della casa reale per spedizioni verso l'ovest. Seppi in seguito che Cristobal aveva avanzato a re Giovanni la proposta di un viaggio verso ponente per raggiungere le Indie [57]. Il monarca aveva rifiutato per la richiesta esorbitante di denaro da parte dell'ammiraglio genovese, e perché era più interessato ai progressi che già erano in atto sulle coste Africane; dopo sei anni, infatti, Bartolomeo Diaz avrebbe raggiunto il "capo delle tempeste" [58].
Il destino dell'ammiraglio genovese e il mio si incrociarono nuovamente, contro ogni mia previsione, quando nel 1485 egli raggiunse questo monastero ed affidò alla nostra cura il figlio Diego che aveva avuto dalla moglie da poco deceduta [59]. Mi riconobbe, e fu lieto di lasciare il figlio in un ambiente così ricco di astronomi e studiosi della navigazione. Padre de Marchena riuscì ad avere un colloquio con l'ammiraglio, al quale promise tutto l'appoggio di cui avrebbe necessitato in ambienti ecclesiastici per la sua spedizione.
Conoscerete bene ciò che accadde in seguito: l'anno successivo il navigatore genovese ottenne l'appoggio dei duchi di Medina Sidonia e Medina Coeli [60], ma non un finanziamento adeguato all'impresa che voleva compiere.
Nell'estate del 1486 mi fu proposto da padre Antonio de Marchena di compiere alcuni rilevamenti astronomici su un'altura che sorgeva nell'entroterra di Palos. Trascorremmo molte nottate con gli occhi puntati verso il cielo, e a lume di candela riempimmo molti fogli di dati e posizioni. Di nulla mi tenne all'oscuro: più volte si impegnò a rendere chiara la funzione delle rilevazioni che stava compiendo. Ricordo in particolare che una notte in cui il cielo era coperto egli mi domandò come avrei fatto a navigare verso nord su una zattera priva di bussola. Gli risposi con un sorriso che la Stella Polare avrebbe sempre indicato il nord. Egli, allora, mi chiese se anche Noè avrebbe potuto sfruttare questa gigantesca bussola cosmica. Io mi domandai dapprima il senso di questa domanda, la cui risposta pareva palese quanto quella della prima che mi aveva posto. Poi gli dissi che Noé si sarebbe potuto basare sullo stesso principio, e che proprio l'immutabilità delle leggi di Dio dà ordine al cosmo e non gli permette di sprofondare nel caos. Egli mi disse che Noé, seguendo la Stella Polare, non si sarebbe affatto diretto verso nord. La stella che avrebbe dovuto prendere in considerazione sarebbe stata Alpha Draconis. Mi raccontò di aver udito per la prima volta parlare di terra sferica quando Paolo dal Pozzo aveva inviato al canonico portoghese Fernando Martins una relazione dettagliata dei suoi studi. Padre Antonio aveva, così, ripreso in mano un testo dell'astronomo greco Ipparco, in cui si parlava di un "asse della terra". Egli aveva sempre creduto che potesse trattarsi di un'immaginaria retta perpendicolare al disco terrestre, ma la teoria del fiorentino gli faceva pensare ad un asse che attraversasse la sfera terrestre da estremità ad estremità. Ipparco sosteneva che, per un fenomeno chiamato precessio equinotialis, l'asse terrestre non era completamente fermo, ma eseguiva dei movimenti ondulatori che lo portavano, nell'arco di secoli, a variare la sua direzione. Da questo discendeva che nel passato, al tempo del Diluvio Universale, tale asse non doveva puntare verso la Stella Polare, ma verso un'altra stella. Gli studi compiuti avevano portato padre Antonio alla conclusione che, allora, in nord fosse indicato da Alpha Draconis [61].
Non fu, questa, l'unica dotta intuizione di cui il frate astronomo mi rese partecipe. Alcuni giorni dopo lo interrogai nuovamente sul fenomeno della precessio, che tanto mi aveva affascinato. Egli mi disse che esisteva un secondo fenomeno legato all'oscillazione dell'asse della terra. Nel giorno dell'equinozio - spiegò - il sole sorge ad est esattamente di fronte alla costellazione dei pesci. Concordai con le sue parole: ne era stato testimone Cristobal Colón quando aveva studiato la rotta da seguire per mezzo della meridiana, e il simbolo dei pesci compariva sulle carte di Aramburu, proprio sotto le tre 'S' del Sine Sole Sileo. Secondo padre de Marchena, a causa della precessio equinotialis la costellazione davanti cui sorgeva il sole non sarebbe rimasta la stessa per sempre. Come la lancetta di un gigantesco orologio, il sole sarebbe sorto nella costellazione dei pesci fino ai primi anni del XXI secolo, quando sarebbe entrato in quella dell'acquario. Gli domandai ogni quanti anni il sole sarebbe migrato da una costellazione all'altra, ed egli mi rispose che l'intervallo era pari al tempo che ci divideva dalla fondazione di Roma [62]. Calcolai, dunque, che se il sole avesse raggiunto la costellazione dell'acquario nel secolo XXI, il passaggio dall'ariete ai pesci si sarebbe dovuto compiere nel III secolo prima di Cristo, mentre il precedente, dal toro all'ariete, sarebbe avvenuto nel secolo XXV prima di Cristo. Ne dedussi che il sole venne creato di fronte alla costellazione del toro [63].E ciò avrei ritenuto una verità assoluta, se non avessi in seguito visto ciò che avrebbe sconvolto ogni mia ipotesi e teoria sulla data della Creazione.
Ma non vi tedierei affatto con questi principi astronomici, se non acquistassero un importante ruolo nel corso dei miei successivi studi.
Nell'aprile che precedette quell'estate, Cristobal Colón, che aveva già ricevuto una benevola accoglienza dal gran tesoriere di Castiglia, Alfonso di Quintanilla, il quale l'aveva presentato all'arcivescovo di Toledo, Pedro Gonzales de Mendoza, incontrò per la prima volta i sovrani spagnoli Isabella e Ferdinando. L'attenzione dei monarchi era rivolta, in quel periodo, alla conquista della regione di Granada, che i mori ancora occupavano. Approfittando del fatto che, come saprete, nel 1479 gli spagnoli avevano perso il controllo dell'intera costa africana, passato ai portoghesi, il navigatore genovese propose a re Ferdinando uno sbocco inatteso: lo sfruttamento delle Indie attraverso la via dell'Ovest.
Il re istituì una commissione di studiosi presieduta da Hernando de Talavera, uomo la cui ampiezza di vedute in materia di astronomia e navigazione non era - purtroppo - pari alla santità.
In seguito, udii più volte padre de Marchena lamentarsi della assoluta mancanza di rigore degli studi della commissione, e dell'incapacità di valutare senza pregiudizi la teoria di Colón. Io stesso, dopo alcuni anni, ne lessi le relazioni compilate in seguito agli studi compiuti, e vi ritrovai decine di citazioni da testi biblici che sembravano negare la possibilità dell'esistenza di terre a ponente. L'auctoritas che veniva più spesso nominata era sant'Agostino, ma non mancavano riferimenti ad autori pagani, come Epicuro, il quale riteneva che esistesse un emisfero opposto al nostro irraggiungibile perché, per accedervi, sarebbe stato necessario attraversare una zona torrida, in cui i navigli si sarebbero in un istante ridotti in cenere. E poiché da Adamo derivò il genere umano tutto intero e né Adamo né i suoi figli attraversarono mai l'oceano, come mai potrebbero esser popolati gli antipodi?
Aggiungo, padre, che nel giugno di sei anni dopo Hernando inviò alla regina Isabella una lunga epistola, in cui sosteneva che sorpassare i limiti fissati da Dio al mondo significava peccare e perdere la propria anima per l'eternità, e inoltre avrebbe dato inizio ad un'epoca di terribili calamità. Il monaco giungeva addirittura a proporre di affidare Colón alla Santa Inquisizione.
Non vi stupirà, dunque, l'unanime reazione negativa alla proposta dell'ammiraglio. In accordo con gli altri monaci di La Rabida, inviammo una lunga missiva alla Commissione, in cui criticavamo alcune conclusioni basate su errate interpretazioni delle Sacre Scritture. Non ricevemmo alcuna risposta.
Vi sarete accorto del vivo interesse che suscitarono qui a La Rabida le proposte di Cristobal ai monarchi di tutta Europa: io e padre de Marchena non eravamo i soli a sperare che egli riuscisse ad ottenere una flotta per esplorare la via dell'ovest; molti altri confratelli, soprattutto chierici, si tenevano costantemente aggiornati sui movimenti dell'ammiraglio, e s'io posso riferirvi che Colón si rivolse ancora al re d'Inghilterra Enrico VII [64] e al francese Carlo VIII [65], lo devo a loro. Conoscerete bene, padre, il fallimento di quest'entrambe proposte.
Ma dirò di un altro navigatore di cui udimmo progetti simili a quelli dell'ammiraglio genovese: il suo nome, Fernão d'Ulmo [66], ci era stato segnalato da Martin Behaim in una lettera dal tono entusiasta. Si trattava di un fiammingo la cui impresa era stata accuratamente studiata da una commissione presieduta dallo stesso Martin, il quale ci informava della avvenuta partenza di Fernao per l'isola delle Sette Città.
Come avrete udito, egli non fece mai ritorno. Fu, questo, un fatto che ancor più accrebbe lo scetticismo delle commissioni di studio: comprenderete, in questo contesto, un altro responso negativo da parte del gruppo di studiosi nominato dalla regina Isabella, diretto dal suo monaco confessore Hernando de Talavera.
Trascorsi gli anni che precedettero il 1493 studiando su numerosi testi di astronomia, che più volte mi furono segnalati da padre Antonio de Marchena. Le nostre conversazioni riguardavano in particolare l'applicazione all'arte della navigazione di principi cosmologici e astronomici. Egli mi illustrò, ad esempio, un paradosso che sembrava crearsi applicando la geometria al globo terrestre. Se, infatti, il percorso più breve per passare da un punto all'altro su un piano era quello che univa in linea retta i due punti, sulla sfera questo principio non era più valido. Per raggiungere una regione agli antipodi, sulla terra sarebbe stato necessario percorrere un tragitto curvo, la cui lunghezza era pari alla semicirconferenza terrestre. Per quale motivo la retta non era più la direzione ottimale da seguire? [67] Aggiunse, ancora, che da questo problema discendeva un'intrinseca difficoltà a rappresentare su una carta nautica le coste degli stati. Un'esatta descrizione di tutte le coste e degli oceani si sarebbe potuta eseguire soltanto disponendo d'una carta nautica sferica come il globo da rappresentare. E vi dirò che quest'idea, per quanto bizzarra, fu realizzata da Martin Behaim a Norimberga nel 1492, il quale dipinse su un grande globo di legno le coste del mondo conosciuto. Mai vidi questa carta-globo, ma ne fui informato dallo stesso studioso tedesco.
Se, dunque, l'interesse per l'astronomia mi s'era creato dopo l'incontro con Antonio de Marchena, dirò che anch'egli rimase affascinato dall'arte cartografica nello studio della quale trascorrevo innumerevoli ore. E voglio lodare in particolare la gran quantità di trattati su tale arte che potei avvicinare nella biblioteca del monastero di cui voi siete l'eccellentissimo Priore. Se in queste mie pagine dovessi elencare tutti i testi che sfogliai con le mie mani e di cui ammirai le splendide riproduzioni, questa lettera diverrebbe null'altro che un elenco accurato e forse completo dei volumi della biblioteca; mi limiterò, così, a nominarne uno soltanto, che acquistò un ruolo importante per le mie riflessioni.
Copia del trattato dell'astronomo greco Protineo Remota cosmologya, riproduceva un gran numero di mappe del Mediterraneo. Tra le altre, ne scorsi una che mi parve d'aver già visto altrove. Non aveva le fattezze della mappa del capitano Aramburu, né di alcuna carta mostratami dall'ammiraglio Cristobal. Ricordai, poi, di non aver effettivamente mai visto tale immagine, ma d'averne udito soltanto una descrizione da parte di un marinaio a Genova, il quale mi aveva riferito del ritrovamento di alcune anfore greche in terra africana, presso la foce di un fiume. Su un'anfora, egli aveva notato la riproduzione di una mappa, che gli apparve insolita per la presenza di una grossa terra ad ovest della Ispagna. Osservando la pagina della Remota cosmologya che avevo davanti agli occhi, l'avrei potuta descrivere con le stesse parole usate dal marinaio per l'anfora: essa riportava i confini di alcune terre tra le quali si riconoscevano le coste spagnole e nordafricane. A sinistra, poco più a sud di un gruppo di isole, su una vasta terra compariva l'immagine di un uomo incoronato che emergeva dalle acque reggendo un tridente. Accanto a costui, la scritta talassas teos permetteva di identificarlo con Poseidone, il dio del mare. A sinistra del dio pagano, compariva l'immagine di un leone che cavalcava un sole, proiettando un'ombra allungata.
Sentivo che l'immagine riprodotta sull'anfora doveva essere quella che si trovava in quel momento davanti ai miei occhi. Il significato dell'immagine del sole e del leone, però, risultava ancora oscura alla mia mente.
Dio si servì di padre Antonio de Marchena per portare la luce nei miei studi: quando gli chiesi quale significato poteva avere, in un trattato astronomico, l'immagine di un leone a cavallo del sole, egli si allontanò per raggiungere la sua cella, e ritornò dopo alcuni minuti con un volume tra le mani. Si trattava della Astronomia di Ipparco, illustrata da un copista particolarmente abile. Lo aprì, e dopo averlo sfogliato per qualche istante, indicò un'immagine che raffigurava una coppia di pesci che si mordevano reciprocamente la coda. All'interno del cerchio da loro formato, compariva l'immagine del sole. Padre de Marchena mi spiegò che il leone e i pesci erano configurazioni zodiacali. L'associazione di questi con il sole, indicava il lungo periodo storico durante il quale, per il fenomeno della precessio, l'astro diurno sorgeva dinanzi alla costellazione indicata. I pesci intorno al sole rappresentavano il periodo nel quale siamo tuttora vivendo: dal III secolo prima di Cristo al XXI dopo Cristo [68].
Ne dedussi, dunque, che il leone che cavalcava il sole doveva riferirsi al periodo che sarebbe intercorso tra i secoli CLIV e CLXXVIII dopo la nascita di Cristo [69]. Mi interrogai più volte sul senso che potesse avere un tale riferimento temporale su una carta geografica risalente ai greci antichi, in contraddizione con il biblico annuncio che la fine dei tempi era ormai prossima. Nuovamente invocai l'aiuto di padre de Marchena, il quale mi disse che il ciclo della precessio era incominciato quando il Cosmo fu creato, e da allora sarebbe proseguito sino all'Apocalisse finale. I calcoli eseguiti dagli studiosi sulla data della creazione del mondo, però, non erano corretti. Secondo padre Antonio, l'Onnipotente avrebbe dato forma al Cosmo ben prima del 3760 a.C. Si trattava di un'affermazione pericolosa.
Gli domandai, allora, in quale era fosse stato creato. Egli mi disse di non conoscere la risposta a questa domanda, ma parlava di centinaia di ere prima dell'attuale.
Questo significava che la carta di Protineo poteva riferirsi anche ad una era precedente l'attuale. Dai miei calcoli risultò che si potesse trattare del periodo intercorso tra i secoli CXV e XCII prima di Cristo [70], dall'anno 11440 al 9200. Notai una impressionante coincidenza tra questo periodo e quello in cui la civiltà descritta da Platone sprofondò negli abissi: novemila anni prima di Cristo. Dunque il testo del Filosofo poteva riferirsi ad un fatto realmente accaduto.
Comprenderete, padre, il mio stato d'animo, incapace di mediare tra la conoscenza scientifica che stavo apprendendo e l'intaccabile fede che avevo nelle Sacre Scritture. Fu ancora l'appoggio di padre de Marchena a sollevarmi da un periodo di profonda crisi interiore. Egli mi disse che non si sarebbe dovuto confondere un testo di buona scienza con i libri della Bibbia. La scienza spiegava i meccanismi, i processi, i "come" degli eventi che accadono. La Bibbia raggiungeva la profondità delle motivazioni, dei "perché" di ciò che avviene. Aggiunse che la scienza dei medicinali poteva alleviare i dolori fisici, risalendo ai processi per cui si crea la sofferenza. La Parola di Dio, invece, sorreggeva il malato dandogli una motivazione, un Senso più alto che si nascondeva dietro quel dolore. E fece il nome di Nostro Signore Gesù Cristo, che aveva patito l'immolazione in Croce per dare un significato più alto ad ogni sofferenza cui noi saremmo stati sottoposti.
Non si dovevano, dunque, interrogare le Sacre Scritture riguardo argomenti di dominio scientifico. Padre de Marchena arrivò a dire che forse Adamo non era esistito, e che la descrizione del peccato originale non fosse altro che un'allegoria, un riferimento "poetico" (usò questo termine) alla ribellione che avvenne nel momento in cui l'umanità tentò di vivere senza dar lode all'Altissimo, ergendosi a giudice di sé stessa.
Udite queste parole, il mio animo si sollevò in un inno di gloria al Suo Santissimo Nome: percepivo un barlume di Verità nelle parole di padre Antonio, e nonostante fossero teorie che difficilmente sarebbero state capite dal volgo, anzi, si sarebbero prestate ad insidiosi fraintendimenti, accolsi come mie queste opinioni, e ne feci tesoro negli anni che seguirono.
Non so se queste pagine sopravviveranno alla furia di coloro che rifuggono gli argomenti della logica per affidarsi unicamente ad una fede cieca e senza domande. Spero, in ogni caso, che l'Altissimo protegga queste mie parole, affinché rifulgano a maggiore sua gloria, illustrando agli uomini tempi e modi in cui l'Onnipotente plasmò il Cosmo tutto.
Ma dirò ora dell'imponente mole di informazioni che ormai possedevo, dimostrazioni tutte dell'esistenza dell'arcipelago che, nei secoli precedenti il 9000 avanti Cristo, aveva visto il fiorire di una civiltà sorta sull'isola di Atlas.
La sua presenza risultava da carte nautiche antichissime, delle quali soltanto due uomini erano a conoscenza: l'ammiraglio Cristobal ed io.
E fu la tenacia del navigatore genovese a convincere i reali spagnoli della possibilità di buscar el Levante por el Poniente [71]: come avrete udito, con le Capitolazioni di Santa Fe [72] presero la decisione di finanziare una spedizione verso l'ovest, guidata da Colón. Padre Antonio da Marchena si era avvicinato sempre più all'ammiraglio, e gli aveva dato un importante aiuto per vincere le ultime esitazioni da parte dei reali. La fine della lunga guerra contro gli Infedeli portò al navigatore genovese la notizia che attendeva da anni. Furono armate tre caravelle, e il comandante italiano diede alla propria il nome della Madre di Nostro Signore, quasi ad innalzare un inno di lode verso la donna che generò il Figlio dell'Altissimo ed invocarne la protezione e la benedizione.
La flotta lasciò il porto di Palos il 3 agosto 1492, e dopo due mesi di navigazione piena di incognite e peripezie, avvistò le coste indiane del Cipango, le terre visitate dal veneziano Marco Polo [73]. E la lode dell'intera cristianità vada all'ammiraglio Cristobal, per cui Dio ha fatto più di quanto abbia fatto per i suoi profeti, aprendo davanti alle prue delle sue navi le acque dell'oceano, e permettendogli di liberare l'umanità da un antico errore. Il 12 ottobre ha consegnato all'Ispagna un mondo nuovo, intatto, i cui popoli vedranno la luce di Cristo e udranno la sua santa Parola.
Il 15 marzo 1493, al suo ritorno, egli ottenne un'accoglienza trionfale, essendosi fatto accompagnare in patria da alcuni uomini dalla pelle rossa che aveva trovato sull'isola da lui scoperta e battezzata San Salvador; nell'aver notizia di tali eventi mi accorsi delle prospettive che il viaggio dell'ammiraglio aveva aperto.
Dapprima constatai la perfetta corrispondenza tra la descrizione che ebbi degli uomini rossi acconciati con penne variopinte e il testo della lettera di pater Johannes. Anche l'ambiente descritto da Colón era del tutto simile a quello su cui l'ignoto sacerdote era naufragato.
D'altra parte, molto raramente ero in grado di prendere sonno la notte senza udire, nel silenzio della cella, le urla dei dispersi dal viaggio verso l'ovest, da cui erano ritornati salvi soltanto diciannove marinai.
E le membra mutilate, i volti irreparabilmente contratti dal dolore, le grida lancinanti di quegli esseri scampati per miracolo da una tragedia, comparivano alla mia mente, e domandavano un perché... Più volte mi svegliai ansimando, per la consapevolezza d'esser forse l'unico ad udire ancora quei sussulti, quei richiami. Mi domandavo dove si trovassero quei quarantun uomini che, raggiunte probabilmente le terre di Cristobal, vi avevano ritrovato un destino infausto. A che cosa erano stati sottoposti? Le mie notti erano popolate di incubi terrificanti, ed immaginavo le efferatezze più crude, perpetrate su quegli europei che - per fini che mi risultavano assolutamente ignoti - avevano raggiunto territori sconosciuti all'intera cristianità. Ritornarono alla mia mente le parole che Cristobal mi aveva confidato sull'isola di Frixlanda: la spedizione era stata "organizzata da una potente confraternita religiosa".
Non so spiegarvi, eccellentissimo padre, il modo in cui collegai nella mia mente il concetto di "confraternita religiosa" e la "croce templare di Cîteaux" sotto la quale avevo ritrovato il manoscritto di pater Johannes. Vi dirò soltanto che riflettei su questa congettura comparsa alla mia mente in modo subitaneo, come un'illuminazione da tempo attesa ma invano cercata. Perché i "Cavalieri del Tempio"? Scomparsi due secoli fa, all'inizio del XII secolo erano al culmine del loro potere, detenendo provincie, magioni e capitanerie in tutta Europa e Oriente.
Non fu difficile per me ritrovare decine di testi che riguardavano la confraternita di San Bernardo. Fui colpito in modo particolare da alcuni insediamenti templari: accanto a Cesarea, San Giovanni d'Acri e Antiochia, comparivano i nomi La Rochelle, Cadice e Campochiesa. Se i primi due vi risulteranno indubbiamente noti, vi segnalo il fatto che l'ultimo si riferisce ad un villaggio che visitai durante le mie indagini intorno al quadrato del Rexol. Comprenderete la mia sorpresa di ritrovare in tanti luoghi, da me uditi nel corso degli studi sulla pergamena di pater Johannes, un fattore comune, un elemento unificatore, costituito dai Cavalieri del Tempio.
Giuntami notizia di una seconda spedizione verso le terre indiane d'oltreoceano, pensai che avrei potuto unirmi alla flotta di Colón, composta questa volta da 17 caravelle, placando, così, i miei incubi e facendo tacere definitivamente quelle voci che da ormai troppo tempo turbavano i miei sogni. Le navi sarebbero partite dal porto di Cadice; ricorderete che nell'aprile del 1493 vi domandai licenza di raggiungere la città spagnola, permesso che mi concedeste dandomi la vostra benedizione. Vi tenni all'oscuro della mia volontà di intraprendere il viaggio verso l'ovest, e di ciò non posso che domandarvi umilmente perdono. Pensaste che volessi trascorrere alcuni mesi nella città andalusa al fin di approfondire i miei studi sul regime dei venti atlantici.
Raggiunta Cadice il 23 aprile, fui accolto dai frati Cappuccini, i quali mi fecero alloggiare in una confortevole costruzione che sorgeva accanto alla chiesa di Santa Cueva. Notai il basso livello culturale dei religiosi della città, con i quali non potei affatto proseguire gli interessanti dibattiti intrapresi qui a La Rabida. Mi fu d'aiuto nell'intessere contatti con la compagnia portuale di Cadice un uomo di nome Francisco de Noronha: si trattava di un architetto responsabile della costruzione di alcuni pozzi, da eseguirsi nei pressi del chiostro dei Cappuccini. In passato la sua abilità e le sue conoscenze idrauliche erano state sfruttate per l'edificazione di piccole costruzioni murarie nei pressi del porto della città, realizzate per ampliare la già vasta serie di edifici adibiti a magazzini.
Più volte fui invitato nella sua casa, ed egli si mostrò molto interessato ai miei studi. Pensai di domandargli se conoscesse qualcosa sul ruolo svolto dai Cavalieri del Tempio nella città. Egli mi disse che, nel passato, i Templari possedevano una flotta composta da decine e decine di cocche anseatiche. Si trattava di un tipo di nave che già avevo udito dal frate benedettino conosciuto a Carcassonne. Francisco mi confidò che le cocche anseatiche erano navi tecnicamente avanzatissime, che soltanto i Cavalieri del Tempio avrebbero potuto possedere, grazie alla gran quantità di denaro di cui usufruivano. Nessuna flotta reale, né europea né saracena, possedeva navi di tale fattura, dotate addirittura di un timone a poppa. Non saprete, padre, che l'uso di tale timone risale soltanto agli ultimi anni del secolo XV [74]. Era davvero sorprendente che i Cavalieri potessero disporre di una flotta così potente e tecnicamente avanzata. Francisco de Noronha aggiunse che, quando era bambino, aveva udito dai più vecchi che "i Cavalieri di Gerusalemme avevano costruito tante chiese con l'oro del mare". Più volte si era interrogato su queste dicerie, e ne aveva concluso che i Cavalieri di Gerusalemme erano da identificarsi con i Cavalieri del Tempio. Non era riuscito a spiegarsi il significato di "oro del mare", ma quando aveva avuto notizia dello sbarco di Colón nella terra di San Salvador, aveva ipotizzato che i Templari avessero già raggiunto nel passato, con le loro potentissime flotte, le coste indiane, e da laggiù avessero portato con sé quantità ingenti di oro, speso per la costruzioni delle oltre trenta cattedrali europee.
Mai ipotesi giunse più suggestiva e inquietante ai miei orecchi.
Riferii a Francisco di aver udito d'una cocca anseatica che era stata possedimento papale fino al XIV secolo. Gli dissi anche che al suo interno era stata rinvenuta una mappa, ormai distrutta, che riportava confini di terre ad ovest dell'Europa; la nave era stata costruita a La Rochelle. Egli mi disse d'esser stato in passato nella città francese, e di aver più volte avuto l'impressione che il suo porto fosse molto più avanzato di qualsiasi altro egli avesse mai visto. Non sapeva che i Cavalieri vi avessero costruito una roccaforte [75], e si disse perplesso sul fatto che vi si fossero insediati; quando non si faceva ricorso ai servizi delle Repubbliche marinare italiane, l'organizzazione templare prevedeva che i carichi da inviare fossero convogliati nell'Apulia, e imbarcati su navi che prendevano il mare dal porto di Brindisi. Ottenni alcuni documenti che provavano la presenza templare nella città, e che oltre ad attribuire il controllo dell'area portuale all'Ordine dei Cavalieri del Tempio, testimoniava l'importanza che tale centro aveva acquistato negli anni. Francisco si disse molto stupito dal fatto: per i collegamenti con la Ispagna e il Portogallo erano utilizzate, ancora oggi, vie di terra. Tra i vari documenti che mostrai a Francisco, in particolare fummo colpiti da una mappa della Francia, sulla quale risultava evidente come la città francese si trovasse alla confluenza di oltre dieci strade. Ci chiedemmo se esistesse qualche elemento che avesse potuto provare la congettura per cui i Templari avrebbero scoperto, e forse percorso per anni, la via dell'ovest per raggiungere le Indie.
L'unico elemento di cui disponevo era la pergamena di pater Johannes, nascosta sotto una croce templare, e mi accorsi che la teoria di Francisco poteva non essere così inverosimile. Provai ad immaginare uno scenario plausibile. Nel 1130 una nave lascia il porto di Genova per raggiungere Cadice. Un terrificante fortunale fa deviare la rotta verso una direzione sconosciuta. L'equipaggio sbarca sulle coste indiane, e un sacerdote che si trovava a bordo, pater Johannes, incomincia a predicare il Vangelo ai popoli incontrati. Alcuni uomini si convertono al Cristianesimo, e vengono inviati dal religioso in Europa, il quale affida loro una lettera manoscritta per il pontefice. In essa lo informa della presenza di terre sconosciute alla cristianità, con la speranza che il papato possa benedire la sua missione ed inviare altri uomini che lo aiutino nella sua opera di fede. Giunta in Europa, la lettera viene occultata nella cripta di Cîteaux, con ogni probabilità dai Cavalieri del Tempio. Il motivo per cui ciò avviene dev'essere attribuito al timore che circolasse la diabolica idea di una terra al di là del mare: i cristiani avrebbero, così, cominciato a chiedersi perché la Bibbia non ne parli, e poi a dubitare del potere spirituale del papato. Saprete bene che in quegli anni la chiesa si trovava in un difficile momento, impegnata com'era a sradicare il germe dell'eresia albigese. Una lettera del genere avrebbe avuto la funzione di incrementare ancor più i dubbi del popolo cristiano nell'infallibilità delle Sacre Scritture. I Templari non si lasciano sfuggire la possibilità di sfruttare ciò che le terre dell'ovest possono offrire. Forse sulle coste indiane si trovavano immensi giacimenti d'oro e argento. In tutta segretezza, creando un servizio regolare da La Rochelle raggiungono e fanno pervenire in Europa quantità immense di metalli preziosi, utilizzate per finanziare la costruzione di decine di cattedrali. Da uno dei viaggi verso occidente, presumibilmente negli anni immediatamente precedenti il 1169, data di compilazione del diario di Paolo d'Amalfi, di un equipaggio di sessanta membri fa ritorno in Europa soltanto un terzo. La nave su cui si trovavano raggiunge un arcipelago di dieci isole, ultime terre emerse di un continente che era fiorito nel 9000 avanti Cristo, durante l'era del Leone, ed era stato distrutto dalla furia divina. Non riuscivo ad immaginare che cosa avvenne nell'arcipelago dell'isola di Atlas. Diciannove uomini ritornano in patria: mutilati nelle membra, privati dell'uso della parola, sfigurati in volto da ciò che hanno dovuto vedere e in preda ad un inspiegabile terrore, lasciano - prima di morire - testimonianza dell'esistenza passata di una terra, l'isola atlas, su documenti, diari, lapidi e sulla chiglia della nave che li ha riportati in patria: è il quadrato del Rexol. Nessuno in Europa è in grado di comprendere il significato dei messaggi lasciati dai superstiti.
Si trattava, padre, di una ricostruzione molto sommaria, che non spiegava l'esistenza della meridiana di Frixlanda, né della carta di Aramburu, né delle anfore greche in terra fenicia. Ero certo che l'anello mancante fosse da ricercare nell'arcipelago del Rex Maris, ove l'isola atlas doveva aver lasciato qualcosa di sé. E fu così che, dopo mesi di contatti con la compagnia portuale di Cadice, fui accolto a bordo della Mariagalante, l'ammiraglia di Cristobal. Era il 23 settembre. Il navigatore mi riconobbe, e con un sorriso soddisfatto mi si avvicinò e mi strinse le mani con forza. Non parlò del viaggio che avevamo fatto anni prima. Mi disse soltanto che gli faceva piacere avermi a bordo, e che avrebbe avuto da confidarmi alcuni pensieri che gli erano nati durante la spedizione del 1492.
Molti degli uomini dell'equipaggio erano i compagni della prima spedizione e gli altri, per la maggior parte, erano volontari entusiasti e assetati di ricchezze. C'erano poi alcuni hidalgos [76] e molti ecclesiastici. Tra questi ultimi, venni presentato a padre Linares, colui che più aveva contrastato Colón prima del 1492. Il suo sguardo era penetrante e severo, e non s'addiceva affatto ad un uomo che aveva il ruolo di convertire alla fede di Cristo i popoli indiani. Furono imbarcati anche cavalli e strumenti di ogni genere, e l'equipaggio comprendeva numerosi artigiani, che avrebbero edificato nuove città nelle terre raggiunte.
La flotta di diciassette caravelle tutte insignite del vessillo regio, con a bordo milleduecento uomini, fece vela all'alba del 25 settembre 1493, in mezzo ad un festoso risonare di corni e di trombe, commisto all'eco delle bombarde che si propagava per le curve del lido. I teneri adii si mescevano agli auguri più cari per i naviganti che andavano alla ricerca dell'oro a traverso un mare che aveva perduto, per opera dell'esploratore genovese, la fama secolare di mare tenebroso popolato di mostri. A bordo della nave su cui mi trovavo, al seguito del genovese "ammiraglio del mare Oceano e viceré delle Indie" c'erano uomini d'arme, fanti e cavalieri, gentiluomini familiari del re, e antichi ambasciatori della corte di Ispagna. Non meno di cinque domestici erano addetti alla persona di Colombo. Tra gli altri, conobbi il cartografo Juan de la Cosa, cui dobbiamo la carta nella quale siano segnati i contorni e i nomi delle prime terre scoperte da Cristobal.
Ci dirigemmo dapprima verso le isole Canarie, approdando alla Gran Canaria il 2 ottobre. Ripartimmo il giorno stesso, verso la mezzanotte, diretti verso la Gomera, ove giungemmo tre giorni dopo. Nei due giorni di sosta, completammo le provvigioni, procurando semi, piante ed animali destinati a riprodursi nelle nuove terre. Al momento di riprendere il viaggio, l'ammiraglio consegnò a ciascun pilota un piego sigilato contenente il tracciato della rotta per l'isola Española. Proibì di dissuggellare l'involto, eccetto che se le navi, a causa di una tempesta, avessero dovuto perdere di vista la capitana.
Il 13 ottobre perdemmo di vista l'isola del Ferro, la più occidentale delle Canarie, e in quel punto accentuammo la rotta verso il sud.
A bordo della nave potei osservare decine e decine di portolani accuratissimi, nella lettura dei quali i giorni a bordo della Mariagalante passarono celermente. Più volte praticai rilevazioni astronomiche sul pontile, utilizzando il quadrante che si trovava nella cabina di pilotaggio. Il rollio e il beccheggio della nave imprimevano forti oscillazioni al filo a piombo, tanto da rendere azzardata ogni lettura. Tentai, ad ogni modo, di seguire sommariamente il tragitto percorso.
Il 23 ottobre incominciammo a vedere sul mare grosse chiazze d'erba galleggianti. Tra una manciata d'erba venne pescato un granchio vivo, e non poco me ne rallegrai, poiché sapevo per esperienza che quei piccoli crostacei non s'incontravano mai a più che 80 leghe dalla terra. Il viaggio fu rallentato, però, dallo scatenarsi di una tempesta terribile, che colpì la nave il 26 del mese. Riuscimmo a placarla esponendo il corpo di sant'Ermo sulla gabbia della capitana in mezzo a sette candele accese [77]. Quando il cielo si rasserenò, vedemmo passare sulla nave un pellicano, ed alcuni giorni successivi una balena, animale che rallegrò gli animi di tutti, perché nessuno ignorava che quel cetaceo si discostava poco dal lido. Il 3 novembre, da poco terminata la celebrazione delle funzioni sacre, furono raccolti a bordo un ramoscello di rosa canina, carico di bacche, e alcuni pezzetti di legno lavorato. A sera, avvistammo alcuni lumini in lontananza. O eccellentissimo padre, forse non riusciranno le mie parole a descrivervi l'animo con cui accolsi la notizia d'esser giunto nelle terre del Cathai, nell'estrema propaggine orientale delle Indie di Marco Polo, nelle regioni la cui esistenza aveva turbato i miei pensieri, le mie riflessioni, gli studi di anni interi. Del Signore è quella terra, con le sue ricchezze, con i suoi abitanti. Lui l'ha fissata sopra i mari, l'ha resa stabile sopra gli abissi. Chi è degno di salire al monte del Signore? Chi entrerà nel suo santuario? Chi ha il cuore puro e mani innocenti; chi non serve la menzogna e non giura per ingannare. Alzate, porte, i vostri frontoni, alzatevi, porte antiche: entra il re, grande e glorioso! Chi è questo re, grande e glorioso? E' il Signore, valoroso e forte, è il Signore Dio dell'universo: è lui il re grande e glorioso [78].
L'ammiraglio diede all'isola il nome di Dominica, per il giorno in cui era stata avvistata. Non riuscendo a trovarvi porto, ripartimmo, lasciando una nave che la costeggiasse. Dirò, padre, che nei giorni successivi incontrammo altre isole; una prese il nome di Mariagalante, un'altra Guadalupe - poiché Cristobal aveva promesso ai monaci di Santa Maria di Guadalupe di dare il nome del loro convento ad un'isola che avrebbe scoperta. La nave trovò infine porto su una baia di quest'isola, ed approdammo il 4 novembre. Per la prima volta il mio piede si posò su una terra indiana, e mi chinai a terra, stringendo nelle mie mani la fine sabbia bianca che si trovava sulla spiaggia.
Insieme ad alcuni esploratori, visitammo un villaggio deserto, composto di poche misere capanne. Frugammo dappertutto, e con gran meraviglia di tutti fu ritrovato un pezzo di nave europea che non apparteneva certamente alla nave perduta dall'ammiraglio nel primo viaggio [79].
Colui che meno fu impressionato da tale rinvenimento fui indubbiamente io. Compresi che quel frammento di chiglia non poteva appartenere che alla nave di pater Johannes. Decisi di informare l'ammiraglio di tutte le conoscenze acquisite in tanti anni di studio, compresa la pergamena del sacerdote. E non ebbi difficoltà ad ottenere un udienza con lui: il comandante Diego Marquez, infatti, si internò nell'isola e si smarrì tra le dense foreste, riuscendo ad uscirne soltanto il 10 novembre. La sosta forzata all'isola di Guadalupe, dunque, mi permise di trarre in disparte Cristobal e di mostrargli la pergamena. Lo vidi molto interessato sia al manoscritto che gli avevo posto tra le mani, sia al quadrato del Rexol che gli avevo proposto. Dopo averli studiati per alcuni minuti, mi disse che doveva esservi qualche collegamento tra i due documenti. Mi riconsegnò la lettera, e rivolse verso di me il quadrato, puntando il suo dito sulla lettera "M". Disse a bassa voce "mille", poi spostò il dito sulla "I" della prima parola, pronunciando la parola "uno". La sua mano indicò quindi la "V" della parola ovest, e disse "cinque".
Si fermò, e mi restituì il quadrato. Mi disse di proseguire da solo il calcolo. Non riuscivo a comprendere, padre, ciò che l'ammiraglio mi stava proponendo di fare. Provai ad estrarre dal quadrato tutte le lettere che avessero un corrispondente valore numerico, e ne trassi la sequenza MIVXLILL. La somma delle singole cifre dava il numero 1167. Comunicai il totale a Cristobal, il quale mi disse che - ora - conoscevamo anche la data in cui il viaggio nelle terre indiane era stato fatto.
Aggiunse ancora che tutte le carte di Aramburu recavano in un angolo la croce patente templare, la stessa che compariva nella cripta di Cîtreaux. Durante i suoi studi, l'ammiraglio era risalito ad un Jean d'Aramburu, templare francese d'origine basca con ogni probabilità avo del comandante Aramburu, al quale San Bernardo avrebbe affidato una missione da mantenere assolutamente segreta ed alcuni documenti ritrovato dai Cavalieri del Tempio a Costantinopoli.
Nulla si diceva della natura di tale missione, né dei documenti segreti. Si era a conoscenza, però, del fatto che Jean d'Aramburu aveva raggiunto il porto di La Rochelle in brevissimo tempo, e da qui s'era diretto verso una "città lontana". Dapprima Cristobal aveva ipotizzato che costui si fosse diretto verso le isole del nord: se in tali documenti si parlava della meridiana di Frixlanda, egli si sarebbe potuto dirigere verso tali terre.
Ma rivelandogli le conclusioni cui ero giunto, egli comprese il ruolo che avrebbe potuto svolgere la città di La Rochelle: da qui, Jean d'Aramburu si sarebbe potuto imbarcare per le terre del Cathai, e con il passare dei secoli tali carte ed appunti nautici sarebbero giunti nelle mani del suo discendente Aramburu.
Cristobal mi apparve molto turbato, ed io attribuii il suo stato d'animo al fatto che egli non poteva più considerarsi il primo europeo a porre piede sulle terre oltreoceaniche. Ma compresi che non dava alcun peso a queste riflessioni: sospirando, mi investì d'un importante incarico. Ricordo che le sue parole mi indussero alla commozione e ancora oggi, nel ricordarle, sono colto da profonda emozione. Per il tono solenne che allora utilizzò e per il fatto che furono le ultime parole che da lui udii. In seguito non avrei mai più rivisto Cristobal Colón. Con sguardo fermo e serio, mi disse che il ruolo di noi europei in questa terra era quello di civilizzatori e portatori della luce dell'Evangelo. Questo, sopra tutto, era ciò che avrebbe dovuto guidare ed ispirare ogni pensiero ed azione, ogni esplorazione e contatto con gli indigeni. Il quadrato del Rexol era la eco lontana di un passato che era stato tragico per alcuni uomini, i quali avevano raggiunto queste terre, e vi avevano trovato la morte. In qualità di servo di Dio, avrei dovuto spendere i giorni che mi restavano da vivere nella ricerca della Verità che si nascondeva dietro tale scomparsa. Il ritrovamento del frammento di nave era da considerarsi come una manifestazione della Volontà Divina: l'Onnipotente mi chiedeva, tramite le parole di Cristobal, di ritrovare le orme lasciate due secoli prima da sessanta europei giunti da Genova al seguito di una spedizione templare.
Vi dirò, padre, che il timore di ciò davanti cui avrei potuto trovarmi fu mitigato in gran parte dal pensiero che stavo agendo Ad Maiorem Dei Gloriam, al fin di portare la luce di Cristo e della Verità su un mistero che legava le terre europee a quelle del Cathai, sulle quali ci trovavamo.
E chinai il mio capo, giurando all'ammiraglio la mia volontà di eseguire la missione di cui egli m'aveva investito, e chiedendogli di pregare per la buona riuscita dell'azione che stavo per intraprendere. Mi abbracciò, e mi diede un colpo con il palmo della mano sull'avambraccio. Mi sentii ripieno di quella forza che la fede nell'Altissimo crea nel milite di Cristo, pronto a render testimonianza della Parola di Dio in quelle terre.
Quando Cristobal si allontanò, risuonarono in me le sue parole e i gesti con cui aveva decifrato il quadrato del Rexol: egli era stato in grado d'andare oltre il Senso Letterale, raggiungendo un livello di lettura più profondo e celato agli occhi dei più. Era riuscito a leggere in quelle venticinque lettere la data in cui la nave era ritornata dalle coste indiane. Ed essa coincideva con i dati di cui ero in possesso: la fenetra prophetae Ionas e il registro del mercante ligure riportavano la stessa data. La mia ammirazione, se ancora non aveva raggiunto un punto altissimo verso l'ammiraglio italiano, fu ancor più elevata da questa dimostrazione del suo acume e della sua intelligenza. E ancor più fui ferito nell'orgoglio quando scoprii che sarebbe bastato sottrarre alle parole moria ovest rexol isola atlas le lettere mancanti dal manoscritto del chierico per estrarre dal quadrato tutte la sequenza di numeri la cui somma avrebbe rivelato l'anno del ritorno in patria dei naviganti.
Ritornai alle navi, e fui accolto a bordo di una caravella che costeggiò l'isola di Guadalupe raggiungendo il 10 del mese un'isoletta che, per essere assai montuosa, venne chiamata Monserrate. Costeggiammo la terra per raggiungere un promontorio che sorgeva poco più a sud. L'intero equipaggio sbarcò, lasciando che le altre caravelle proseguissero nell'esplorazione del vasto arcipelago. Da allora non rividi più la Mariagalante né Cristobal. Ma dirò, padre, che la missione che stavo conducendo diresse tutti i miei pensieri a ciò che vidi sull'isola. Furono tirati alcuni colpi di colubrina, ma alcun rumore giunse di rimando. Soltanto verso sera uscì dalla fitta vegetazione un gruppo di uomini dalla pelle rossa, adorni di piumaggi i cui variopinti colori si distinguevano appena, illuminati com'erano dalle torce che tenevano tra le mani. Non sembravano avere un atteggiamento ostile nei nostri confronti, al ché mi avvicinai ad uno di essi allargando le braccia in segno di pace. Costui dovette comprendere le mie intenzioni, poiché ordinò che i pochi uomini intorno a lui riponessero nelle faretre le frecce che da poco avevano estratto. Si espresse in un linguaggio che non compresi, e si avvicinò a me. Si mise il pungo sul petto, alzando la mano sinistra in segno di saluto. Con un breve movimento della testa, diede ad intendere che desiderava lo seguissi. Mi voltai verso gli uomini dell'equipaggio, i quali, stupiti di questo inaspettato incontro, avevano impugnato le armi, pronti a difendersi da un eventuale attacco. Dissi loro che avrei seguito l'indigeno. Tra gli uomini della nave non c'erano altri ecclesiastici: si trattava soltanto di artigiani, coltivatori e uomini d'arme. In caso contrario, avrei richiesto la compagnia di un uomo di chiesa per la missione d'ambasceria che stavo per svolgere. Dovetti, invece, inoltrarmi nella foresta da solo, accompagnato soltanto dagli uomini dalla pelle rossa. Camminammo per alcuni minuti, fino a giungere ad un gruppo di capanne. Intorno ad un fuoco, alcuni uomini seduti si volsero ad osservarmi, e nei loro occhi notai la comprensibile sorpresa di trovarsi di fronte ad un uomo bianco, vestito con un saio così diverso dai loro abiti di piume.
Fui introdotto in una capanna che era illuminata dal fuoco di alcune torce disposte sulle pareti. All'interno, giacente su un letto pensile e reticolato, si trovava un uomo all'apparenza molto anziano. Con voce flebile, si rivolse a me, pronunciando le parole "Ave". Intuii che si trattasse della lingua latina, ed egli volesse, così, darmi il benvenuto nella lingua dei paesi dai quali provenivo. Mi chiesi come potesse egli conoscere il latino: compresi, in seguito, che non era affatto in grado di parlarlo correntemente; egli possedeva un vocabolario molto ristretto di parole, con le quali cercava di farsi da me capire. Tentai di comunicargli il mio nome, dicendogli: "Ego sum pater Armanio". Tossendo più volte prima di poter pronunciare altre parole, sollevò due dita e mi disse: "Pater Johannes hic... est... fuit". All'udire il nome del religioso le cui parole avevo letto e meditato per anni, dapprima sussultai, poi riflettei su ciò che l'anziano mi stava dicendo. Padre Giovanni era stato qui, in questo luogo. Respirando affannosamente, egli si accorse, probabilmente dalla mia espressione, che il nome del religioso non mi era del tutto nuovo. Accennò ad un sorriso, e ripeté: "Pater Johannes... hic fuit!". Impaziente d'udire da lui altre informazioni sul sacerdote, agitai le braccia, mimando le parole che scandivo per farmi comprendere dall'indigeno: "Ego legi Patris Johannis epistulam." Mi parve ch'egli non comprendesse le mie parole. Soltanto, con un gesto della mano, chiamò alcuni uomini, ai quali si rivolse con un linguaggio a me incomprensibile. Essi si allontanarono dalla capanna, per ritornarvi dopo alcuni minuti. L'anziano uomo mi osservò sorridendo per alcuni minuti, ed io provavo un imbarazzo immaginabile, eccellentissimo padre: solo, in mezzo ad un popolo che non parlava la mia lingua, lontano centinaia di leghe dalle terre europee e dalla mia cella di La Rabida... Al ritorno degli uomini inviati dall'anziano indigeno, fui condotto in una capanna all'interno della quale trovai un pagliericcio dall'aspetto confortevole, e un contenitore di bambù ricolmo di frutti esotici variopinti. Pensai di ritornare alla nave, per avvertire gli uomini della presenza del villaggio nel quale ero stato accolto con così grande entusiasmo. Poi riflettei sull'atteggiamento che avevo notato nell'equipaggio: non pochi intendevano raggiungere l'isola per ottenerne ricchezze e terreni. I più non mostravano alcun interesse nella possibile cristianizzazione delle terre raggiunte. La sete dell'oro guidava ogni loro azione, e sono certo che non avrebbero esitato ad uccidere pur di depredare un villaggio dagli ori e dai monili che vi avrebbero trovato. Decisi, dunque, di tener segreta l'ubicazione di questo piccolo gruppo di capanne, deciso com'ero ad approfondire i legami che c'erano tra il villaggio e il misterioso pater Johannes.
I pochi indigeni che mi avevano accompagnato a quella che, compresi, si trattava della mia stanza da letto, si allontanarono. Mi stesi e mi addormentai presto. Fui risvegliato dal risuonare di alcuni tamburi. Uscii dalla capanna, e vidi lo splendore di quell'Arcadia descritta da pater Johannes nella sua lettera a papa Onorio II. E mi accorsi che, come il sacerdote aveva scritto, gli indigeni "erano miti e gentili, e io immaginai che così avremmo potuto essere se non avessimo perduto per sempre il Paradiso Terrestre. Quella terra era ricca e generosa, sia di frutti che di cacciagione, oro e pietre preziose e i suoi abitanti ci accolsero come fratelli e ci sfamarono". Raggiunsi la capanna dell'anziano uomo dalla pelle rossa, che la notte precedente mi aveva accolto con parole di benvenuto. Egli mi riconobbe, e mi rivolse nuovamente l'unico saluto che conosceva in lingua latina. Respirando a fatica, pronunciò nuovamente il nome del religioso, seguito da una parola di cui non compresi il significato: "Pater Johannes ciba [80]." Volgendo lo sguardo verso un uomo che si trovava accanto al letto, gli sussurrò la parola "Cibao!". Con la mano mi indicò di seguire l'uomo al quale s'era rivolto, ed io uscii dalla capanna, dirigendomi verso la fitta foresta che circondava il villaggio. Perdetti il senso dell'orientamento, e non sarei stato in grado di ritornare alla nave. Anche il sole, che mi avrebbe aiutato ad orientarmi, era scomparso dalla mia vista, oscurato com'era dalle fronde scure che avevo d'intorno. Costeggiammo un corso d'acqua percorrendo un sentiero che si faceva sempre più ripido e scosceso. Lo spettacolo che si parò dinanzi ai miei occhi difficilmente potrà esser descritto dalle mie parole: si trattava della sorgente del fiume che avevamo seguito per una buona mezz'ora. Sgorgava dall'interstizio di due rocce bianchissime, e formava una cascata di alcuni metri, tuffandosi in una conca dai riflessi d'avorio. Ogni roccia che veniva bagnata dall'acqua aveva un colore bianco molto lucente con riflessi dorati. Il sole, riflettendosi sui sassi, illuminava quello spettacolo della natura, facendomi innalzare a Dio un canto di lode per le meraviglie che mi stava mostrando.
Gli uomini si tuffarono nella grande pozza d'acqua, gridando il nome che avevo già udito dall'anziano indigeno: "Cibao!". La colorazione delle pietre doveva derivare da un qualche minerale che si trovava disciolto nell'acqua. Ma non aveva la tonalità del calcare: non avevo mai visto dei riflessi tali.
Mi chinai a toccare l'acqua, ed immediatamente sentii la mano rifulgere di una energia mai provata prima. Sentii le mie fibre rigenerarsi, sensazione che doveva derivare dalle proprietà benefiche di quell'acqua sorgiva. Gli uomini uscirono dalla conca, e si diressero verso il sentiero che ridiscendeva lungo il fiume, verso il villaggio donde eravamo partiti. Tornato tra le capanne, fui accompagnato dall'anziano indigeno, il quale mi accolse sorridendo. Riuscì a pronunciare, dopo un lungo sospiro, le parole "Johannes ap... appellabat ciba o-orichalcum". Vi dirò, padre, che l'oricalchum è un minerale dai riflessi dorati descritto da Platone nel Critia; tale pietra si trovava nella città da lui descritta, affondata nel 9000 a.C. negli abissi dell'oceano Atlantico. Fu dunque grande la sorpresa nell'udire quel nome associato alla sorgente e a pater Johannes. Richiamai alla mente il documento del sacerdote, e mi ricordai delle parole che aveva utilizzato nel descrivere una sorgente d'acqua che aveva trovato nella foresta, la "fonte della vita". Egli aveva scritto di aver lasciato che l'acqua gli scorresse sugli abiti, e d'improvviso sentì svanire la stanchezza per il lungo viaggio. Gli parve che le membra si facessero più leggere e di essere tornato vigoroso come negli anni della gioventù. Io non avevo sperimentato un'immersione completa, ma il semplice tocco dell'acqua aveva in qualche modo rigenerato le mie mani, donando loro un vigore nuovo. Ciò che l'indigeno voleva darmi ad intendere era che il sacerdote chiamava la sorgente (o le rocce bianche) orichalcum. Doveva esserci un motivo per cui egli avesse usato questo termine, che conoscevo per aver letto i dialoghi platonici. Vi avrei riflettuto a lungo. Possedevo invece, una sicurezza: quella di trovarmi sulla terra - o su una delle terre - che pater Johannes aveva visitato. Mi congedai dall'anziano, ed attraversai il villaggio, che si rivelò più vasto di quanto non avessi immaginato la notte prima. Giungemmo ad una costruzione molto più imponente delle altre, realizzata con assi di legno e canne di bambù. Entrando, vi ritrovai oltre due dozzine di uomini dalla pelle rossa che si voltarono verso di me, facendo un veloce e scomposto segno della croce. Puntando il mio sguardo alla parete di fondo della capanna, compresi di trovarmi in una chiesa cattolica: sopra un altare in legno si trovava un piatto ricolmo di frutti esotici. Accanto al piatto, un rozzo calice conteneva un liquido nerastro. Non erano pane e vino, ma frutti della terra e del loro lavoro quotidiano. Dietro il misero altare era stata issata una croce molto ampia, e poco è più a destra, qualcuno aveva realizzato una statua nei cui tratti avevo riconosciuto la Vergine Maria. Si alzò un vociare diffuso, e vidi che tutti mi indicavano pronunciando il nome di pater Johannes. Compresi che mi avevano scambiato per lui: tale costruzione non poteva essere che opera sua o dei suoi seguaci. Ancora oggi mi chiedo se agii secondo la Divina Volontà di Dio, quando raggiunsi l'altare ed aprii le braccia, intonando un canto di lode. Pronunciai le parole gloria in excelsis deo, e fu con grandissima sorpresa che udii tutti gli uomini dalla pelle rossa unirsi al mio canto. Capii che davvero grandi sono le opere del Signore, e che egli non abbandona i suoi figli. Da due secoli ormai questi uomini avevano proseguito l'opera cui aveva dato inizio pater Johannes nel lontano 1140. Forse non tutto ciò che il sacerdote aveva insegnato loro era restato nelle loro usanze: ma forse la bellezza della religione cristiana è questa disponibilità ad adattarsi ai popoli, alle culture, ai costumi dei luoghi che ha raggiunto. E se, io con voi padre, avremmo gridato allo scandalo al vedere uomini acconciati in quel modo in una cattedrale europea, nello scenario da Eden nel quale mi ritrovavo i loro costumi erano un'ulteriore lode all'Altissimo, per la variopinta colorazione e per l'umile semplicità. All'udire le voci di quegli uomini, nelle quali ritrovai la sincera volontà di glorificare il Signore della Vita, il mio cuore si sollevò dalle tensioni del viaggio e provai lo stesso desiderio di pater Johannes di non ritornare in Europa, ma di restare in questa Arcadia e di svolgere la mia missione in queste terre lontane. Poi la richiesta di Cristobal risuonò nella mia mente, richiamandomi alla promessa che gli avevo fatto. Nulla avrebbe dovuto distogliermi dalla strenua ricerca della Verità intorno alla spedizione del XII secolo. Quando il canto di lode terminò, mi si avvicinarono molti indigeni, e tutti cercarono di toccare il mio saio. Fui trasportato fuori dalla cappella, e raggiunsi un pozzo che sorgeva a poche centinaia di metri dal centro abitato. Mi accorsi che non affondava le sue radici in alcuna falda sotterranea: uno degli indigeni che mi aveva condotto sul posto, si introdusse nella cavità e, assicurando alla sua vita una corda, si calò all'interno del pozzo, scomparendo presto dalla mia vista. Ne riemerse dopo alcuni minuti, e tra le mani teneva una cassetta di legno rinforzata con listelle di metallo. Ritornammo nel villaggio, e l'anziano indigeno ne estrasse una pergamena arrotolata che mi consegnò tra le mani senza proferir parola. Ne lessi il contenuto, mirabile e sorprendente per le rivelazioni che conteneva, scritto in lingua latina oltre due secoli prima.
"Io, padre Giovanni, servo di Dio e della Chiesa, dopo una vita spesa per la continua testimonianza dell'Evangelo, mentre le forze mi stanno abbandonando, lascio nelle viscere della terra il resoconto di ciò che avvenne per anni in questo angolo di Eden, ancora incontaminato dalle tenebre del peccato. Il mio animo è addolorato e afflitto, e le membra affaticate dall'opera che ho compiuto per la maggior gloria dell'Onnipotente. Ma il mio cuore è ricolmo della consapevolezza d'aver agito rettamente, e tanto basta per farmi lasciare questa vita con la serenità nel cuore. Giunsi in queste terre in seguito ad un fortunale che colse la nave poco oltre le colonne d'Ercole. La nostra nave fu scagliata sulle spiagge di quest'isola, ove fummo accolti da uomini che la cristianità non aveva mai incontrato. Non sapevo e ancora non so quanto questa terra si estenda, né di quale territorio si tratti. Trovai, però, un terreno fertile per portare agli indigeni dalla pelle rossa la Parola che Nostro Signore ci ha affidato. Insegnai i rudimenti del latino a questi uomini, e compresi che la cristianità europea avrebbe dovuto conoscere le meraviglie di quest'Arcadia sulla quale ero, per volontà di Dio, sbarcato. A bordo di una nave che il carpentiere di bordo aveva costruito con l'aiuto degli indigeni, si imbarcarono alcuni uomini dalla pelle rossa. Con sé recavano una lettera indirizzata al nostro pontefice Onorio. Non so quale sorte ebbe l'imbarcazione, né mai saprò come il papa accolse le mie parole. Per anni scrutai invano l'orizzonte, nell'attesa di veder comparire navi europee che avessero risposto al mio richiamo. Con il passare del tempo le mie speranze si affievolirono, e compresi che i miei messaggeri non erano riusciti a raggiungere le coste mediterranee.
Negli anni trascorsi sull'isola appresi le usanze del popolo che avevo incontrato, e mi fu riferita la storia della terra sulla quale ero approdato. Mi fu mostrata la "fonte della vita", dalla quale attinsi un gran vigore alle membra. Appresi che tale sorgente era molto piccola al confronto di quella che si trovava in un arcipelago di isole a sud di questa terra. Mi fu spiegato che il grande Dio Creatore aveva deciso di creare un mondo in cui far vivere gli uomini. Per prima cosa fece il cielo e la terra. Poi cominciò a fare le persone che dovevano abitarla, scolpendo grandi figure di pietra che poi animò. In principio la civiltà che si sviluppò fu florida e potente. Dopo un po' gli uomini cominciarono ad azzuffarsi e a rifiutarsi di lavorare. Quetzalcóatl - così chiamavano il Dio Creatore - decise che doveva distruggerli. [81] Il mondo degli mazehualob [82] sarebbe stato frantumato a causa dell'innalzamento dei mari e della sommersione conseguente. La catastrofe prese il nome di Apachiohualiztli. Sette coppie di uomini si nascosero in una grotta finché il diluvio non cessò e le acque si abbassarono. Della grande terra che Quetzalcóatl aveva creato, rimasero soltanto dieci isole. I superstiti si divisero, e ripopolarono la terra. Alcuni migrarono verso est. Altri raggiunsero queste terre. Altri ancora si soffermarono nell'arcipelago rimasto, ricercando sotto il livello del mare la terra che era stata sommersa. Gli uomini che sbarcarono su questa terra si spinsero verso ponente, fondando una grande civiltà che eresse monumenti immensi a Quetzalcóatl, il Dio Creatore [83]. Gli uomini che si stabilirono nell'arcipelago, invece, si corruppero, e il germe del male si insinuò nelle generazioni che si susseguirono. Si diedero ad usanze innominabili e a riti orribili. Divennero antropofagi, e più volte raggiunsero questa terra per catturare uomini da sacrificare agli dei falsi e malvagi che adoravano. Contro gli uomini della città sommersa gli indigeni di questa terra non potevano niente: per secoli dovettero soccombere ai loro attacchi e ai rapimenti. Si dice che la città sottomarina possedesse una sorgente di acqua mescolata ad un minerale che, per i miei studi di letteratura greca, identificai con il platonico orichalcum. Le proprietà di quell'acqua sorgiva conferivano agli abitanti della città una forza superiore, che permetteva loro di sopraffare i popoli vicini. Mi fu spiegato che la "fonte" presente su quest'isola non aveva la stessa portata di quella di cui disponevano i selvaggi antropofagi.
Tale era la situazione che si presentò ai miei occhi quando giunsi in questo luogo. Più volte vidi giungere dal mare, a bordo di piroghe enormi, uomini dalla pelle cianotica che entrarono nel villaggio con la forza, generando ondate di terrore collettivo. Dopo aver saccheggiato e depredato ciò che trovavano sul loro cammino, portavano con sé almeno una dozzina di uomini, che venivano catturati vivi per essere destinati a sacrifici umani. La mia mente non può cancellare il ricordo degli indigeni terrorizzati, che giungevano a togliersi la vita pur di non cadere nelle mani degli antropofagi.
Le piroghe ritornavano nel luogo dal quale erano giunte, e per settimane nel villaggio si piangevano i deceduti e si riparavano i danni alle capanne e ai manufatti che erano stati vittima della furia degli uomini che venivano dall'est.
Ricordo tre incursioni terribili, durante le quali la popolazione fu decimata.
Sinché un giorno vidi spuntare all'orizzonte le vele di una nave cristiana. Pensai che papa Onorio avesse ricevuto il mio messaggio e avesse inviato uomini per colonizzare e convertire i popoli di queste terre. A bordo della caravella si trovava un cavaliere templare di nome Jean d'Aramburu, che mi riconobbe quale mittente della lettera giunta in Europa. Gli domandai in che modo fosse riuscito a condurre a buon porto la nave. Egli mi disse d'essere in possesso d'una carta che avevano ritrovato a Costantinopoli, risalente a secoli prima. Scritta con caratteri greci, venne ricopiata in latino: essa descriveva le coste di una grande terra ad ovest delle colonne d'Ercole, e segnalava la presenza di un'isola che, però, non avevano trovato sul cammino. Io compresi che si trattava della terra sprofondata negli abissi millenni prima della nascita di Cristo. Descrissi, allora, gli orrori che avvenivano su questa terra, mettendoli in guardia dal pericolo che avrebbero corso nell'avvicinarsi all'arcipelago degli antropofagi. Con mio grande disappunto, il capitano Jean si informò della presenza di metalli preziosi sull'isola. Io risposi che verso l'interno sorgevano miniere d'oro e d'argento, ma che i giacimenti più floridi si trovavano sotto il mare: la città sommersa conteneva non soltanto metalli preziosi, ma addirittura una gran quantità di orichalcum, minerale con straordinarie proprietà taumaturgiche. Il templare mi assicurò che sarebbero stati mandati altri religiosi sull'isola, e la caravella si allontanò dalla costa così come vi era giunta. Passarono oltre due anni, prima che approdasse un'altra nave sulla nostra terra. Questa volta, però, si trattava di diciassette cristiani che versavano in condizioni terrificanti. Non descriverò le efferatezze che mi descrissero; riporterò soltanto ciò che mi riferirono del loro viaggio: dissero di esser partiti da Genova su una nave guidata da Cavalieri del Tempio, i quali li avevano convinti a partecipare ad una spedizione segreta dalla quale avrebbero potuto ottenere ingenti ricchezze. Giunti ad un arcipelago di isole, erano stati legati tutti con catene e informati del destino che li attendeva: compresero d'esser diventati oggetto di scambio. I selvaggi che popolavano l'arcipelago avrebbero concesso ai Templari di attingere dalle loro miniere di metalli preziosi in cambio di vite umane. Furono condotti in una grotta, all'interno della quale trovarono una lunghissima scala che sembrava condurre nelle viscere della terra. Discesero per oltre un'ora, e giunsero in quella che sembrava una città costruita sotto terra. Furono intorpiditi dai suffumigi di torce che bruciavano erbe dall'odore intenso e pungente. Non ricordavano cosa successe in seguito: alcuni videro un enorme tempio sotterraneo, all'interno del quale decine di sacerdoti salmodiavano nenie incomprensibili. Uno dei prigionieri fu disteso su una roccia e, afferrato un attizzatoio, i sacerdoti accesero del fuoco su di lui. Ciò che avvenne alla vittima non riuscirono a riferirlo, forse perché le loro menti avevano già provveduto a rimuovere particolari tanto macabri dal loro ricordo. La folla, accorsa da ogni parte e composta da uomini dalla pelle azzurrognola, ripeteva monosillabi che rimbombavano nella volta, creando un effetto terrificante. I cristiani in catene furono rinchiusi in una cella, mentre i Templari si intrattenevano con i sacerdoti, eseguendo contrattazioni a gesti.
Trascorsero alcuni giorni, durante i quali periodicamente vennero torturati e molti sacrificati. Sinché, con uno sforzo sovrumano, alcuni riuscirono a liberarsi dai vincoli e trovare una via d'uscita dalla prigione. Raggiunta la spiaggia ove era approdata la nave, vi salirono in tutta fretta. La fuga riuscì, ed essi levarono l'ancora. Nessuno di loro era in grado di pilotare una nave, né se qualcuno ne fosse stato capace lo avrebbe potuto fare, date le condizioni in cui versavano tutti, vittime com'erano stati di mutilazioni e torture innominabili. L'imbarcazione fu così vittima di una tempesta che la scaraventò su quest'isola.
Li informai della storia della civiltà che era fiorita sulla terra da cui erano fuggiti, ed essi mi dissero che ancora molti di loro erano prigionieri dei selvaggi antropofagi.
Affidai agli uomini del villaggio il compito di riparare la nave, e tentai di ristorare i superstiti, la maggior parte dei quali aveva perso l'uso della parola. Alcuni morirono per le mutilazioni subite sull'isola, altri studiarono con me un modo per informare la cristianità della presenza di una terra che era sconosciuta per la quasi totalità degli uomini europei. Elaborammo un quadrato che incidemmo all'interno della nave, il quale avrebbe informato della presenza di una terra a ponente del Mediterraneo la quale era stata affondata. Dal nome che Platone aveva utilizzato per descriverla, utilizzammo la parola Atlas. Affidai agli uomini il compito di riferire in patria dell'esistenza di questa terra sulla quale uomini innocenti stavano patendo efferatezze ignobili. I dodici superstiti, in condizioni davvero tragiche, lasciarono queste terre diretti da alcuni indigeni che conoscevano molto bene la navigazione. Guidati da Votan Chivim, spero siano giunti in Europa.
Dal giorno della loro partenza, non ho più udito né visto alcun europeo.
I miei giorni stanno per terminare, e le speranze che animavano i giorni della mia giovinezza mi hanno abbandonato. Prego l'Altissimo per le anime dei molti innocenti che hanno dovuto patire la furia dei selvaggi abitatori della città sotterranea. Nel mio animo alberga ancora una sola certezza: che essi vedranno presto la fine dei loro giorni. Allora dunque, l'Onnipotente, che governa secondo le leggi della giustizia, e i cigli del quale discernono il bene ed il male, scorgendo la depravazione di questo popolo, volendo castigarlo per ricondurlo alla virtù e alla saggezza, riunirà le schiere angeliche nella località più splendente delle celesti dimore, al centro dell'universo, donde si contempla tutto ciò che partecipa della generazione, e dopo averli riuniti, dirà loro..."
Come una rivelazione subitanea e improvvisa, le parole di pater Johannes illuminarono la missione della quale ero stato investito da Cristobal Colón. Rilessi più volte il manoscritto lasciato dal religioso, che sciolse ogni mio dubbio e interrogativo. Inquietante per la sua incompletezza, terminava con una profezia terribile quanto ferma. Secoli erano ormai passati dal giorno in cui il sacerdote aveva scritto tale pergamena, inspiegabilmente mai portata a termine. Tutto faceva pensare che egli fosse stato colto dalla morte prima di poter concludere il suo messaggio. Il nucleo di ciò che rivelavano le sue parole, però, era molto chiaro: nella mitologia del popolo indigeno viveva il ricordo di una catastrofe che aveva fatto inabissare una civiltà sorta su una grande terra dell'Atlantico. Atlas era il nome che egli le dava. Io sapevo che ciò era avvenuto oltre novemila anni prima della nascita di Cristo. Secondo Platone, gli uomini che abitavano quella terra avevano stretto contatti con i greci: il fatto spiegherebbe le anfore ritrovate in terra fenicia e le carte elleniche rinvenute dai Cavalieri del Tempio a Costantinopoli. Per segnalare la presenza della terra, essi posero sull'isola di Frixlanda una meridiana che indicasse, nel giorno dell'equinozio, l'esatto tragitto da seguire per raggiungerla. Poiché la civiltà fiorì nell'Era del Leone, sulle anfore e sulla Remota cosmologya del greco Protineo compariva un leone sopra un sole, il quale proiettava un'ombra allungata [84].
In seguito alla catastrofe che inabissò la civiltà nelle acque, il livello di civilizzazione dovette ritornare ad un livello primitivo. La nuova civiltà che si formò sull'arcipelago rimasto si fondava su riti ignobili e sacrifici umani. Essi dovettero rinvenire le rovine sotterranee, e vi si insediarono. Per ottenere sempre nuove vite da offrire agli dei, essi navigarono verso ovest, raggiungendo la terra su cui sarebbe, dopo secoli, approdato pater Johannes. Quando i Templari, richiamati dalla lettera di padre Giovanni, giunsero su queste terre, fiutarono la macabra possibilità di scambiare l'oro, l'argento e l'orichalcum con vite umane provenienti dall'Europa. Fu così che decine di uomini vennero attirati su navi dirette verso l'occidente. Il destino cui andarono incontro fu tragico. Merce di scambio per le sporche contrattazioni dei Cavalieri del Tempio, soltanto in pochi si salvarono, raggiungendo miracolosamente la comunità di pater Johannes, il quale affidò loro il quadrato del Rexol affinché, al loro ritorno in patria, si organizzasse una spedizione per salvare la vita dei pochi che ancora si trovavano vivi nella città sottomarina.
Chi rispose al loro appello? Chi udì il grido disperato degli innocenti? Nelle parole del chierico di cui lessi un estratto non v'era il vaneggiamento di un folle, ma la cronaca d'una tragedia di cui cristiani ignari erano diventati vittime. Non riesco ad immaginare le difficoltà che ebbe a superare la nave dei superstiti... Comprendo soltanto ora, però, il motivo della presenza di nomi come Natzac da Tikal e Copan da Palque [85] nella lista dei sopravvissuti.
Due secoli mi separavano da quella tragedia e da pater Johannes. Le tremende rivelazioni lette mi stavano togliendo la capacità di ragionare e riflettere su ciò che stava accadendo. Avevo perso ogni riferimento temporale, e nella mia mente si sommavano inondazioni, catastrofi, naufragi, diluvi e urla tremende di uomini sofferenti: persi ogni profondità storica, e sentivo che sotto l'arcipelago ancora pulsava il frenetico urlo dei selvaggi, e le atrocità verso uomini innocenti ininterrottamente si perpetravano con ferocia illimitata.
Visibilmente turbato, alzai gli occhi all'anziano indigeno. Doveva esser passata più di mezz'ora dal momento in cui mi aveva consegnato tra le mani la pergamena lasciata nelle viscere della terra da pater Johannes. Scandii le parole per farmi comprendere da lui, pronunciando con voce ferma: "Ego... ire... Atlas".
Volevo raggiungere l'arcipelago.
Strinse il viso tra le mani, sospirando e singhiozzando. Non lo vidi piangere, e compresi che stava così sfogando la sua preoccupazione e la sua disapprovazione. Volle, però, che il mio desiderio fosse esaudito. Un'ora dopo, una piroga lasciò la costa, diretta verso sud-est. A bordo si trovavano con me tre indigeni che conoscevano il percorso da compiere.
Il viaggiò durò oltre una settimana. Sull'imbarcazione avevamo caricato molti prodotti della terra degli indigeni, e il mio palato conobbe gusti e fragranze mai provate in precedenza. Sinché una mattina, in controluce, vidi la sagoma d'una terra che sorgeva a poche leghe di distanza dalla piroga. Sbarcammo prima che il sole raggiungesse lo zenit, nella mattinata del 23 novembre 1793. Due degli indigeni restarono di guardia all'imbarcazione. Un quarto, Tikan-Ris, mi indicò un sentiero che si inoltrava nell'isola. Ci incamminammo, fino a giungere su un'altura dalla quale si dominava l'intero territorio circostante. Mi trovai di fronte ad uno spettacolo davvero portentoso e mirabile: nove isolette ricoperte da una vegetazione verde circondavano la terra sulla quale mi trovavo, tutte affondando le radici in una terra che nel passato era stata culla d'una civiltà annientata dalla furia d'una catastrofe immensa. Soltanto dopo tale disastro gli uomini che avevano ripopolato queste regioni s'erano corrotti e dati a riti innominabili. Ma di costoro, dei selvaggi antropofagi di cui avevo letto nel manoscritto di pater Johannes, non v'era alcuna traccia. Pensai con un brivido che la profezia del sacerdote si potesse essere avverata. L'intera regione d'oceano compresa tra le isole acquistava un riflesso dorato, forse per il colore dei manufatti e delle costruzioni che sorgevano sul fondo degli abissi.
Scendemmo verso l'altro lato dell'isola, giungendo in una conca dominata da un'alta montagna. Ai piedi d'essa, un cunicolo molto stretto conduceva nelle viscere della terra, ed io pensai che si trattasse di una delle entrate per quella città sotterranea descritta secoli or sono dal filosofo greco Platone. E guidato dal temerario Tikan-Ris, mi introdussi nell'anfratto che scendeva molto ripido verso le terre degli abissi. Il buio rendeva difficoltoso ogni passo, ma l'assenza di bivi e biforcazioni rese più semplice la scelta della via da seguire: proprio perché non v'era alcuna scelta da compiere. I nostri occhi si abituarono all'oscurità, e vidi infisse nelle pareti i resti di torce su cui, secoli prima, ardevano le erbe descritte dal manoscritto di pater Johannes, capaci di stordire e dare visioni. Dopo almeno mezz'ora di discesa notammo in lontananza una luce fioca. Il passaggio si fece sempre più largo, e ci introdusse in ciò che mi apparve una gigantesca città sottomarina. Alzai gli occhi al cielo, e vidi che la città era interamente ricoperta da un'enorme cappa di cristallo, il quale lasciava filtrare i raggi del sole ma non le acque dell'oceano. Non compresi quando e in che modo gli abitanti di questa terra avessero potuto erigere un complesso monumentale così mastodontico: ogni mio pensiero e riflessione, infatti, erano rivolte a quello scenario deserto e silente, dalla bellezza possente.
Avevo raggiunto il Continente Perduto.
Atlantide. Il solo nome, eccellentissimo padre Juan Pérez, mi faceva rabbrividire. Comprenderete, dunque, il fatto che mai, sino ad ora, l'abbia menzionato nella mia cronaca. Descriverò ciò che vidi senza alcun rigore cronologico, proprio perché la mia mente, stordita dallo splendore e dalla sorpresa di trovarsi di fronte ad una città così meravigliosa e ritenuta dai più una favola, possiede soltanto più caotiche immagini sovrapposte in ordine casuale, e i ricordi si mescolano rendendo impossibile qualsiasi tentativo da parte mia di stilare un resoconto razionale e puntuale sulle mirabilia da me vedute. L'anfratto dal quale ero giunto si inoltrava in un canale largo tre pletri, profondo cento piedi e lungo oltre cinquanta stadi [86]. In lontananza si scorgeva un'altura, intorno alla quale era stato scavato un triplice fossato ripieno d'acqua. Il canale, nel passato, doveva essere percorso dalle navi che vi approdavano: tale passaggio confinava con un recinto e disponeva di un'insenatura dove i vascelli più grandi avrebbero potuto comodamente manovrare. Tre recinti terrestri e marini si alternavano, circondando l'altura sulla quale sorgeva un tempio magnifico; tutti erano larghi due stadi, tranne l'ultimo che circondava l'isola centrale, il quale era largo uno stadio solo. Potemmo raggiungere, grazie ad una serie di ponti, la zona centrale della città. Qui si elevava un palazzo del diametro di cinque stadi. Il circuito di quest'isola, i recinti, il porto largo tre arpenti, erano rivestiti di un muro di pietra. Tutto intorno si trovavano torri e porte in testa ai ponti e all'ingresso delle volte sotto cui passava il mare. In particolare ricordo la bellezza cromatica dell'ambiente sul quale mi trovavo: tutt'intorno all'isola e da ogni lato dei recinti, erano state tagliate pietre bianche, nere e rosse, disposte a formare disegni mirabili. In tutta la loro lunghezza, a guisa d'intonaco, i tre recinti erano ricoperti di metalli splendenti: di rame il più esterno, di stagno il secondo, di orichalcum dai riflessi di fuoco il più interno. Nel centro dell'isola, vicino al palazzo, si elevava un tempio circondato da una muraglia d'oro; era largo tre arpenti, lungo uno stadio e di un'altezza proporzionale. Nel suo aspetto non v'era alcunché di barbarico. Tutto il suo esterno era rivestito d'argento, salvo l'estremità, che erano d'oro, argento e orichalcum. I muri, le colonne, i pavimenti erano ricoperti d'avorio. E dentro si vedevano statue d'oro, tra le quali primeggiava un dio in cui riconobbi le sembianze di Poseidone. Ritto sul suo carro, conduceva sei corsieri alati, ed era così grande che la sua testa toccava la volta del tempio, e a lui tutto intorno, cento fanciulle sedute su delfini. Un gran numero di altre statue sorgevano nei pressi del dio. All'esterno poi, tutt'intorno al tempio, si elevavano le statue d'oro di quelle che pensai fossero le regine e i re che avevano regnato sulla terra di Atlantide.
Per grandezza e lavorazione, l'altare era all'unisono di tali meraviglie, e il palazzo tutt'intero era quale conveniva all'estensione dell'impero e alle decorazioni del tempio. Dietro al tempio, una fontana generava tre flutti d'acqua; due sorgenti producevano acqua fredda e calda, mentre dalla terza sgorgava l'acqua dai riflessi dorati che già avevo vista sull'isola degli indigeni. Tutt'intorno alla fontana si trovavano decine e decine di case ed alberi, questi ultimi amanti dell'umidità che la presenza delle sorgenti assicurava. E v'erano bacini per i bagni caldi, qui quelli meglio decorati, altrove quelli più umili, colà quelli per i cavalli e per ogni altra bestia da soma che dovevano popolare questa terra, tutti ornati secondo la loro destinazione. L'acqua di rifiuto di questi bacini andava ad annaffiare i boschi che sorgevano nella parte posteriore dell'altura su cui si trovavano il palazzo e il tempio. Alberi maestosi e di una bellezza in qualche modo divina si elevavano su un terreno grasso e fertile; l'acqua si incanalava nei recinti esterni mercé acquedotti scavati nella direzione dei ponti. Numerosi i templi consacrati a divinità numerose, numerosi giardini, ginnasi per gli uomini, ippodromi per cavalli, erano stati costruiti su ciascun recinto che formava come un'isola. Vi era, specialmente nel mezzo del più grande recinto, un ippodromo che girava l'isola in tutta la sua lunghezza, ed offriva ai cavalli e alle lotte una pista molto vasta.
I bacini per le navi erano ancora pieni di triremi, e di tutti gli occorrenti apparecchi e cantieri: nonostante fosse stata abbandonata da tempo, nella città sommersa nulla mancava e vi regnava ordine perfetto.
Di fronte ad uno dei templi compariva l'immagine che riproduco qui di seguito.
Comprendemmo d'esser giunti nel luogo ove in passato erano stati perpetrati sacrifici umani e riti spaventosi dagli antropofagi che avevano invaso il territorio degli atlantidei. Ammassati in un angolo si trovavano decine di teschi. Accanto ad essi, una serie di lance e strumenti di tortura colpirono la mia immaginazione, e compresi la sofferenza patita dagli uomini che erano caduti vittima di queste popolazioni selvagge. Sul fondo era stato eretto un recinto, forse per i prigionieri. Avvicinatomi, scorsi sui muri invocazioni in latino, vergate secoli fa dagli europei che qui avevano trovato la morte. Sopra un altare in pietra, alcuni disegni che qui riproduco non permettevano di dubitare dell'efferatezze compiute in questo luogo.
Pregai anch'io, come pater Johannes, per le anime dei molti innocenti qui sacrificati, ringraziando l'Altissimo per aver sterminato la civiltà selvaggia che s'era insediata in questa città dallo splendore magnifico. E ripresi il mio cammino, ritrovandomi davanti ad una colonna eretta nell'esatto centro della città. Intagliata in una roccia d'orichalcum e incisa con caratteri da me sconosciuti, fu avvicinata con interesse da Tikan-Ris, il quale trascorse alcuni minuti per afferrarne il contenuto. Poi si voltò verso di me, tentando di trasmettermi il significato delle parole sulla colonna; e ne compresi il senso generale, per l'altissima abilità gestuale dell'indigeno. Ma Iddio volle che, a poca distanza, si trovasse una simile colonna, franata per terra, sulla quale lo stesso testo era tradotto in greco antico. Compresi di trovarmi di fronte alla prova storica dell'avvenuto contatto in tempi antichissimi tra la civiltà atlantidea e quella greca. Non fu difficile per me leggerne il contenuto; unico ostacolo era il fatto che la roccia non fosse integra.
La colonna raccontava la storia della civiltà di Atlantide, dal giorno della sua nascita sino alla catastrofe che la colpì. Nella notte dei tempi gli dei si divisero il mondo, ed ognuno di essi ebbe per sua parte una contrada, grande o piccola, nella quale stabilì i suoi templi e domandò sacrifici in suo onore. L'Atlantide era toccata a Poseidone. E compresi il motivo per cui sulle carte era indicata come talassas teos o Rex Maris. Egli mise in una parte di quest'isola dei piccoli che aveva avuto da una mortale. Ed era una pianura situata vicino al mare e, verso il mezzo dell'isola, la più fertile di tutte le pianure. A cinquanta stadi più lontano, e sempre verso il mezzo dell'isola, vi era una montagna poco elevata. Colà dimorava, con sua moglie Leucippe, Alexico, uno degli uomini che la terra aveva altra volta generati. Essi non avevano altri figli che una ragazza chiamata Clito, che era nubile quando morirono tutti e due. Poseidone ne fu preso e si unì con lei. Poi, per chiudere e isolare da ogni parte la collina ove essa abitava, scavò attorno un triplice fossato ripieno d'acqua, racchiudendo due bastioni nei suoi solchi ineguali, al centro dell'isola e ad uguale distanza dalla terra: il che rese quel luogo inaccessibile, poiché non si conoscevano allora né i vascelli né l'arte di navigare. Nella sua qualità di dio egli abbellì a suo agio l'isola che stava formando. Vi fece scorrere tre sorgenti, una calda, un'altra fredda, una terza rigeneratrice, e cavò dal seno della terra alimenti svariati ed abbondanti. Cinque volte Clito lo rese padre di due gemelli che egli allevò. Poi divise l'isola in dieci parti, ognuna delle quali dominata da un'altura. E compresi il motivo per cui, attualmente, fossero rimaste dieci isole della civiltà sommersa: si trattava delle alture che dominavano le dieci regioni del continente atlantideo. Al maggiore nato della prima coppia di gemello donò la dimora di sua madre, con la opulenta e vasta campagna che la circondava, e lo creò re su tutti i suoi fratelli; questi fece pure, al di sotto di lui, anche sovrani ciascuno di un grande paese e di numerose popolazioni. Dette ad ognuno di essi il proprio nome. Il maggiore nato, che fu il primo re di quest'impero, fu chiamato Atlante, e da lui appunto presero il nome l'isola intera e l'oceano Atlantico che la circonda. Il suo fratello gemello ebbe in dominio la estremità dell'isola che è più vicina alle colonne d'Ercole: egli si chiamava Gadiro, e da lui il paese prese il nome di Gadiria. I figli del secondo parto furono chiamati Amfere e Evemone; quelli del terzo, Mnesea e Autoctono; della quarta coppia di gemelli il maggior nato fu chiamato Elasippo e il secondo Mestore; gli ultimi erano Azaes e Diaprepes. I figli di Poseidone ed i loro discendenti regnarono nel paese per una lunga serie di generazioni, e la posterità di Atlante si perpetuò sempre venerata.
Con il passare dei secoli gli abitanti costruirono templi, palazzi, porti, bacini per i vascelli; e finirono anche di abbellire l'isola nell'ordine seguente. Loro prima cura fu di gettare ponti sui fossati che circondavano l'antica metropoli e stabilire per tal modo comunicazioni tra la dimora reale e il resto del paese. Essi avevano già da tempo elevato questo palazzo nello stesso luogo dove avevano abitato il dio e i loro antenati. I re che lo ricevevano di volta in volta in eredità continuavano incessantemente ad abbellirlo, sforzandosi di superare ognuno il suo predecessore; onde si giunse a tanto che non si poteva, senza rimanere stupiti di ammirazione, contemplare tanta grandezza e tanta bellezza.
Potrei ancora continuare, descrivendo l'ordinamento politico che qui vigeva e i riti religiosi dedicati a Poseidone, ma Platone già ha descritto correttamente tutti questi aspetti della vita atlantidea. Dirò, invece, di un principio che guidava le loro vite, il quale poteva definirsi a tutti gli effetti "cristiano": lungi dal lasciarsi inebriare dai piaceri e dall'abdicare il governo di se stessi nelle mani della fortuna, divenendo così gioco delle passioni e dell'errore, essi sapevano infatti comprendere che tutti gli altri beni si accrescevano soltanto per il loro accordo con la virtù, e che al contrario, quando li si perseguivano con troppo zelo e ardore, quelli si perdevano, e la virtù con essi. Fu una sorpresa ritrovare un tale concetto espresso da uomini che non avevano mai conosciuto il Messaggio di Nostro Signore. Ma con questo compresi come lo Spirito Santo semina la sapienza anche su popoli lontani dalla cristianità, e per questo la mia lode si alzò solenne. Pregai con un salmo del re Davide, prima di riprendere la lettura del testo greco, dalla quale compresi come gli abitanti di Atlantide avevano avuto sentore del fatto che presto una catastrofe li avrebbe sterminati. Scrivevano infatti: "La volta dei cieli è divenuta instabile, il corso del sole si fa irregolare. Il leone non ci osserva più dalla stessa porzione di cielo. Presto le acque del cielo e della terra si uniranno contro Atlantide. Eusenes comanda: sia costruito un secondo cielo che protegga la città dalla distruzione totale. E i suoi guerrieri agiscono. Eusenes comanda: tutti gli abitanti prendano il largo verso le terre dell'est e dell'ovest, portando con sé due pergamene, affinché ciò che è stato raggiunto in secoli di storia, non abbia a disperdersi. E i suoi abitanti agiscono. Eusenes comanda: venga arrestata la ruota del tempo, e questa città dorma un sonno perenne fino alla caduta finale del cielo. E i suoi sacerdoti agiscono. Atlantide è pronta a patire l'ira del firmamento."
La volta di cristallo era stata, dunque, stata fatta costruire per preservare questa città dalla distruzione totale. Lasciate le colonne alle nostre spalle, raggiungemmo una parete del palazzo reale, ove sorgeva un'enorme ruota suddivisa in cinquantadue settori circolari. Studiandone più da vicino la struttura, mi accorsi che nel passato doveva esser stata in movimento: si trattava della "ruota del tempo" descritta da Eusenes. Ogni settore corrispondeva ad una settimana dell'anno solare, e ognuna di esse era dominata da un punto cardinale e da un simbolo: a nord il coltello, ad est la canna, a sud il coniglio, ad ovest la casa. Non comprendo, oggi come allora, quale significato o funzione avesse tale congegno circolare. Dirò soltanto, padre, che vidi Tikan-Ris prostrarsi a terra di fronte a quella ruota, e ripetere alcune strane parole dai suoni dolcissimi.
Riprodurrò su questo mio foglio il disegno della ruota, nonostante non sia mai riuscito a coglierne l'essenza:
Alzammo gli occhi alla volta di cristallo, e ci accorgemmo che ormai il sole stava tramontando. Avremmo dovuto abbandonare Atlantide prima che la notte calasse. Ci dirigemmo verso il canale dal quale eravamo giunti, ma confesso d'essermi intrattenuto a lungo ad osservare il paesaggio sottomarino che si scorgeva attraverso le pareti cristalline della città. Se l'intera città principale si era salvata dalla catastrofe, l'esterno era stato modificato dall'acqua che per millenni aveva sommerso le bellezze di quella terra. Sopra un tappeto d'erbe marine, si stendevano giganteschi solchi di pietre, forse gli ultimi resti di antiche strade e selciati. In lontananza, si notava un'inspiegabile luce, che si irradiava dalla cima di una montagnola sottomarina. Più a destra, un bosco di alberi morti, senza foglie, senza linfa, alberi mineralizzati dal sale delle acque e dominati qua e là da pini giganteschi. Somigliava ad una miniera di carbone ancora in piedi, stretta con le radici a un terreno sprofondato, e le cui ramificazioni paragonabili a fini intagli di carta nera spiccassero nettamente sul cumulo delle acque. I sentieri erano ingombri di alghe e di fuchi, e vi brulicava un mondo di crostacei. Il mio sguardo si spostava sulle moltissime rocce, sui tronchi coricati e le liane di mare che ondeggiavano tra un albero e l'altro. Quale spettacolo! Come descrivere quegli alberi e quelle rocce, in basso cupe e selvagge, in alto colorate a mille toni rossi sotto il chiarore che la riverberante potenza delle acque moltiplicava? Ai lati della foresta, tenebrose gallerie dove lo sguardo si perdeva. Vaste radure si aprivano, che parevano disboscate dalla mano dell'uomo. Vi intravidi rovine pittoresche dove era segnalata l'opera dell'uomo e non più soltanto quella del Creatore. Nei cumuli di pietre restavano vagamente identificabili antichi templi e palazzi, rivestiti da traboccanti zoofiti in fiore: in mancanza d'edera, alghe e fuchi avevano steso là un gran tappeto. Poco prima di raggiungere l'imboccatura del passaggio che ci avrebbe ricondotti in superficie, mi accorsi che l'altura dalla quale vedevo giungere scintille di luce altro non era che un vulcano che vomitava lava a torrenti, a cascate di fuoco dentro l'oceano. Torcia enorme, il vulcano illuminava la pianura fino all'estremo limite dell'orizzonte. Le colate di lava, incandescenti per natura propria, arrivavano fino al rosso bianco; lottavano contro l'elemento liquido evaporando al suo contatto, creando un effetto ottico veramente spettacolare.
Poi lanciai un ultimo sguardo all'acqua che sommergeva la sgretolata e demolita città d'altri tempi, con i suoi tetti sfondati, i templi abbattuti e le colonne stese al suolo. Respirai per l'ultima volta nella mia vita l'aria d'un territorio inghiottito che esistette per gli antichi fuori dall'Europa, dall'Asia e dalla Libia, oltre le Colonne d'Ercole. Tikan-Ris lanciò un ultimo sguardo alla pianura, e con la mano mi invitò a seguirlo.
La piroga che attendeva all'esterno ci accolse a bordo e dopo una settimana di rotta verso nord-ovest ci ritrovammo sulle coste donde eravamo partiti. Prima di approdare, vedemmo una caravella cristiana ormeggiata al largo del promontorio.
Giunto al villaggio, mi congedai dall'anziano indigeno donandogli la croce che tenevo al collo. Egli, allora, fece chiamare Tikan-Ris, il quale mi affidò un manufatto che aveva raccolto nella città d'Atlantide. Si trattava della testa di un uomo ricoperta da un copricapo diviso in venticinque settori. Venticinque, pensai. Come le lettere del messaggio inciso dai superstiti nella nave che li aveva ricondotti in Europa. Moria Ovest Rexol Isola Atlas. Confesso a voi, padre Juan Pérez, che ancora conservo tale idolo insieme al ricordo delle meraviglie vedute nella città sottomarina.
Lasciai il villaggio stringendo le mani dei molti indigeni che mi si fecero d'intorno, e li benedissi sollevando una mano. Raggiunsi la caravella e mi feci accogliere a bordo, fingendo d'essermi perduto nella foresta. L'imbarcazione ripartì per le coste europee giungendo nel porto di Cadice il 10 gennaio 1494, città che prestp lasciai per tornare a La Rabida. Qui voi mi accoglieste nuovamente, domandandomi se i miei studi sul regime dei venti atlantici avessero avuto un buon corso. Io annuii, promettendo che vi avrei inviato un resoconto dei giorni spesi a Cadice.
Questo mio scritto è l'adempimento della promessa fatta quel 13 gennaio davanti a voi.
Nel cuore ho sentimenti e passioni contrastanti. Meraviglia per lo splendore della città che ho raggiunto. Pena per i molti innocenti che vi hanno trovato la morte. Stupore per la purezza di costumi degli indigeni che mi hanno accolto. Inquietudine per la scoperta dei crimini compiuti dai Cavalieri del Tempio nelle terre d'Occidente. Soddisfazione per esser riuscito ad ottenere la prova delle molte congetture fatte negli anni passati. Pentimento per non aver mai reso alcuno partecipe delle vicende vissute. Lode per le meraviglie dell'Altissimo. Timore per le popolazioni indiane, che potrebbero perdere la purezza dei loro principi entrando in contatto con la corrotta mentalità della nostra Europa. E ammirazione per l'ammiraglio Cristobal Colón, del quale udii ancora notizia in una lettera ch'egli stesso mi inviò. In essa mi espresse la sua preoccupazione per gli uomini che secoli prima non avevano fatto ritorno in Europa dalle terre di Ponente, e per non esser più riuscito a raggiungere l'arcipelago di Aramburu, ove erano state perpetrate su di loro efferatezze innominabili. Aveva deciso di non lasciare che il loro richiamo cadesse nel silenzio, e scrisse di voler lasciare ai posteri un riferimento al quadrato del Rexol nella sua firma, insieme alle indicazioni per raggiungere le isole di Ponente. Nel suo autografo, infatti, ritrovai codificate le parole lasciate secoli or sono dai sopravvissuti alla tragedia:
Non so quanti potranno ritrovare, nella piramide di lettere, il riferimento al quadrato del Rexol ed alla meridiana di Frixlanda. Forse soltanto io riesco a scorgerlo, e penso di dover affidare a voi, padre, il messaggio che si cela nella firma dell'ammiraglio Cristobal. Egli ha tratto dal quadrato alcune lettere, che ha disposto in croce sopra il suo nome: Moria Ovest reXol Ysola Atlas. Al centro si trova la M: Sotto questa compare la O, alla sinistra la X, a destra la Y, e sopra la A. Sovrasta la croce il disegno che compariva sul manoscritto di Aramburu, composto dalle tre lettere della meridiana: S.S.S., Sine Sole Sileo. L'ultima riga è l'unica facilmente comprensibile da chi non conosce gli eventi di cui egli fu protagonista: "portatore di Cristo", in italiano Cristoforo.
Soltanto io so che il richiamo impresso nel nome dell'ammiraglio non ha più speranza d'esser udito, né nelle terre di Ponente gli antropofagi perpetrano più i loro riti su innocenti vittime.
Cristobal morì il 20 maggio 1506, senza mai sapere ch'io avevo raggiunto l'arcipelago di Atlantide. Sotto le acque dell'oceano riposa ancora una civiltà che diecimila anni fa è stata fiorente. La sua scoperta mi ha fatto dubitare dell'affermazione per cui la Creazione sarebbe avvenuta 3760 anni prima di Cristo. Ora so che il Cosmo affonda le sue radici in un passato molto più lontano, e senza timore reputo, con padre Antonio de Marchena, che questo non sia in contraddizione con i testi biblici. I sette giorni della Creazione potrebbero consistere in ere, in millenni, o forse in migliaia di millenni. Il mio pensiero si perde nell'infinità del tempo passato, nel quale scorge immagine del Sommo Creatore. E a lui va la mia lode, per avermi fatto raggiungere una terra che forse mai più alcuno riuscirà ad ammirare. Udii, infatti, sul finire del secolo notizia di una tribù sterminata dai conquistatori europei perché i suoi componenti celebravano un culto simile a quello cristiano, utilizzando invece del pane dei frutti bianchi e al posto del vino, una bevanda ottenuta spremendo bacche simili a more. Gli europei, scandalizzati per un rito a loro dire sacrilego, bruciarono ogni capanna ed ogni croce che ritrovarono sul loro cammino. Non potei non pensare che si trattasse del pacifico villaggio ove ero stato accolto nelle Indie. Lo sterminio ha cancellato gli ultimi uomini che conoscevano ancora il tragitto per giungere ad Atlantide. Soltanto la meridiana di Frixlanda consentirà agli uomini che verranno dopo di noi di approdarvi. Ma qualcuno riuscirà a coglierne il riferimento nella firma di Colón?
Ripenso con nostalgia ai giorni trascorsi curvo su carte e portolani. E più volte le lacrime mi sgorgano senza sosta al ricordo delle notti illuminate dalla luna, durante le quali il rollìo della nave mi cullava dolcemente, riportando la memoria ai giorni in cui, infante, ero stretto tra le braccia di mia madre. La mia lode parte dunque dal mare, l'immenso deserto ove l'uomo non è mai solo perché sente la vita fremere accanto a lui, il veicolo d'una sovrannaturale e prodigiosa esistenza, movimento e amore, infinito vivente. E da qui si innalza al Sommo Creatore, nella cui mente tutto ha preso forma e materia, nelle cui mani affido ciò che ancora mi rimane da vivere. Sit nomen Domini benedictum, ex hoc nunc, et usque in saeculum, a solis ortu usque ad occasum laudabile nomen Dei.
Postfazione bibliografica
Può stupire un approccio medievale al problema Atlantide. Non è d'altronde usuale accostare l'ammiraglio genovese Colombo al Continente Perduto.
Seri studi archeologici, però, sembrano confermare ogni parola del manoscritto di padre Armand, a partire dall'esistenza di mappe segrete che circolavano nel Portogallo del XV secolo. Possediamo ancora oggi l'inspiegabile carta di Piri Re'is, ritrovata nel 1929 ad Istanbul (l'antica Costantinopoli) e risalente al 1513, e gli studi di Charles Hapgood (Maps of Ancient Sea Kings) hanno scatenato una vero filone di seri studi scientifici sull'argomento Atlantide: dallo sconcertante La fine di Atlantide (When The Sky Fells. In Search of Atlantis) di Rand e Rose Flem-Ath, del saggio che collega l'Atlantide all'Egitto, Da Atlantide alla Sfinge (From Atlantis to the Sphinx) del giornalista inglese Colin Wilson, e del monumentale Impronte degli dei (Fingerprints of the Gods) di Graham Hancock, già celebre per il suo Il mistero del Sacro Graal. E' stata, inoltre, da pochi giorni annunciata una spedizione alla ricerca della città perduta che partirà dalla Bolivia a metà dell'anno 1998.
Altri dati, inoltre, confermano le conclusioni cui si giunge dalla lettura del manoscritto di padre Armand, il cui valore storico-archeologico è inestimabile, foss'anche solo per la spiegazione che il religioso dà della firma di Cristobal; assolutamente sorprendente, se si considera il fatto che l'ammiraglio abbia incominciato ad utilizzarla solo alcuni anni dopo la scoperta dell'America (si veda, ad esempio, Cesare de Lollis, Cristoforo Colombo nella leggenda e nella storia, prima ed. 1892). E non dovrebbe far sorridere la possibile esistenza di una terra sommersa nell'oceano Atlantico, se si pensa che, in seguito ad uno studio di J. Manson Valentine e Dimitri Rebikoff, rispettivamente archeologo specializzato in ricerche sottomarine e ingegnere sommozzatore, nel 1968 sono state individuate, nell'arcipelago delle Bahamas, e in particolare nelle acque a nord della piccola isola di Bimini, svariate strutture formate da grossi massi regolari e disposti secondo una geometria artificiale, frammenti di marmo che potrebbero riguardarsi come parti di statue frantumate, disegni realizzati con pietre di diverse dimensioni, che si direbbero riproducenti determinate costellazioni, a cominciare dalle Pleiadi.
E' del 10 settembre 1997, inoltre, la notizia del ritrovamento di un cimitero di navi medievali sul fondale della laguna di Venezia, il cui annuncio è stato dato a Ustica, in un incontro promosso da "Archeologia viva" [87]. Non so se il manoscritto di Armand giunga dall'interno di una di tali imbarcazioni, né prevedo che il suo resoconto sarà mai messo al vaglio degli studiosi, un po' per la mancanza di rigore nelle sue descrizioni geografiche, ma soprattutto per l'atteggiamento della Scienza Ufficiale nei confronti del Continente Perduto.
Se anche la meridiana dell'isola Frixlanda (un'isola al largo dell'Irlanda) venisse ritrovata, il fenomeno della deriva dei continenti renderebbe impossibile la determinazione del percorso da compiere per raggiungere l'arcipelago di Atlantide. Né è determinabile con certezza l'ubicazione della città da Armand descritta. Il fatto che egli abbia toccato le coste indiane, comunque, non può essere certamente arrecato in dubbio: prova ne è l'idolo atlantideo che era allegato al manoscritto del frate francese. Attualmente si trova nella mia casa. La sua fattura è all'apparenza troppo curata per risalire a millenni fa, ma il fatto non deve stupire: nel 1873, a Hissarlik, Paul Schliemann ritrovò un vaso di bronzo che conteneva varie piccole immagini di metallo, monete e oggetti di osso fossilizzato. Su alcuni degli oggetti e sul vaso era inciso in geroglifici fenici "Dal Re Chronos di Atlantide" (Alberto Cesare Ambesi, Atlantide il continente perduto). L'idolo che possiedo riporta - sul retro - l'incisione del nome di Alexico, che nel manoscritto di Armand è marito di Leucippe e padre di Clito, la ragazza che generò con Poseidone i primi dieci re di Atlantide. Con grande cura, la conservo come ultimo testamento lasciato dalla civiltà di Atlantide, scomparsa millenni or sono al tramonto dell'Era del Leone.
Ciò che non muore, invece, è la speranza che questa traduzione possa giungere come un invito a ritrovare, sotto l'oceano Atlantico, ciò che rimane del Continente Perduto. Perché allora, come scrivono Rand e Rose Flem-Ath, "Rinascerebbe la ricerca, passato e futuro si riunificherebbero, il mito potrebbe fondersi con la scienza". Celebreremmo, allora, un uomo vissuto cinque secoli fa, capace di sfidare il tempo e di accompagnare noi, uomini del XX secolo, negli oscuri abissi oceanici.
Sulle tracce di Atlantide.
Mariano Tomatis
17 settembre 1997
Note al testo
[1] Prova del complotto potrebbe essere il fatto che il nome di Padre Armand de Châteauroux non compaia in alcun documento del monastero di Cîteaux. Il suo nome sarebbe stato cancellato in seguito alla sua fuga.
[2] Gran Khan.
[3] Armand si sbaglia di due anni. L'Impero Ottomano conquistò l'Asia Minore nel 1453, otto anni prima del 1461.
[4] Con il termine Asia si indicava il territorio dell'Asia Minore.
[5] a.C circa.
[6] V sec. a.C.
[7] Prima metà del III secolo a.C.
[8] a.C. circa.
[9] Conosciuto oggi come Indicopleuste Cosma, fu uno scrittore bizantino d'origine egizia vissuto nel secolo VI.
[10] Con questo sintagma, che significa testualmente "giardino segreto", nel medioevo si indicava il Paradiso Terrestre.
[11] Nel 1474 il fiorentino invia una lettera e una carta da lui stesso disegnata al canonico portoghese Fernando Martins, da lui conosciuto in Italia, in cui assicura che la via dell'Ovest è quella più breve per raggiungere le Indie, confermando così la tesi di Aristotele e Marino di Tiro.
[12] Equivalenti a circa 38400 chilometri. In realtà la circonferenza è di circa 40000 chilometri.
[13] Così veniva chiamata Tunisi.
[14] Si tratta di Cristoforo Colombo, indicato da Armand con il suo nome spagnolo.
[15] Questa incursione è documentata in una lettera inviata da Colombo a Ferdinando d'Aragona. Alcuni storici dubitano della possibilità che egli sia effettivamente riuscito, con il trucco della bussola, a dirigere la nave verso Tunisi. Si tratta di un particolare, però, che compare nelle prime biografie dell'ammiraglio genovese.
[16] The Voyage and Travayle of Sir John Maundeville.
[17] La leggenda di un regno governato da un certo "Prete Gianni" nasce nel 1165, quando l'imperatore bizantino Manuele riceve una lettera in cui il mai identificato sovrano offriva i suoi servigi e descriveva il suo regno cristiano al di là del mare.
[18] Potrebbe trattarsi dell'antica città fenicia Thymiaterion, che sorge sulla foce del fiume Sebu. Fu fondata da Annone il Navigatore nel V secolo a.C.
[19] Si tratta di un riferimento ad un testo realmente esistente.
[20] Il legno particolarmente pregiato utilizzato per la costruzione di navi spesso non veniva bruciato, bensì riutilizzato per realizzare contenitori o adirittura costruzioni.
[21] Il quadrato del Sator è composto dalle parole sovrapposte sator arepo tenet opera rotas. Le parole possono essere lette da destra a sinistra e viceversa, oppure dall'alto in basso, e al contrario: la loro traduzione potrebbe essere "Il seminatore Arepone tiene all'opera le ruote".
[22] Compare sull'arco del campanile della parrocchia di Santa Maria Ester, a San Felice del Molise (Campobasso), sul pavimento della chiesa di Pieve Terzagni (Cremona), nel convento di Santa Maria Maddalena a Verona, a Bolzano, in un convento della Val Seriana, a Siena, a Fabriano, a Urbino, a Sermoneta, a Capestrano e a Magliano de Marsi.
[23] Potrebbe trattarsi dell'attuale Ghana.
[24] Sono le parole usate da Ferdinando Colombo nel suo ritratto del padre dato in Le Historie della vita e dei fatti di Cristoforo Colombo.
[25] Armand riporta le parole scritte da Ruy de Pina nella Storia generale delle Indie in La Découverte de l'Amérique.
[26] Particolare riportato anche da F. Colombo in op.cit.
[27] Gli studiosi ritengono, oggi, che si tratti di una copia realizzata dallo stesso Colombo. Si veda, ad esempio Michel Lequenne, Cristoforo Colombo ammiraglio del mare Oceano, Electa/Gallimard, 1992, p.39: "Colombo... certamente non è stato in corrispondenza con Toscanelli, come pretendeva, limitandosi a ricopiare delle lettere inviate da costui a Martins così come probabilmente la carta annessa."
[28] Come si vedrà in seguito, le isole cui si riferisce Colombo sono da identificarsi con l'Irlanda e l'Islanda.
[29] Così venivano definite le isole del Nord da Tolomeo.
[30] Nonostante non si abbia notizia del testo Geos di Marcello, si ha tuttavia menzione della leggenda del "drago d'oro" in un papiro del Medio Regno (2000-1750 a.C.), cui il filosofo dev'essersi ispirato per la sua trattazione. Si veda, a proposito, il testo di Alberto Cesare Ambesi, Atlantide, il continente perduto, Xenia 1994, pp.61-62.
[31] Armand si riferisce al drago rosso con sette teste citato nel libro dell'Apocalisse al capitolo 12, versetti 3 e segg.
[32] Di questo viaggio si ha notizia in tutte le principali biografie di Cristoforo Colombo. Si veda, per esempio, Michel Lequenne, Cristoforo Colombo... op.cit., p.38: "...nel Febbraio 1477... Colombo si imbarca per un viaggio decisivo nei mari del Nord. Raggiunge l'Islanda, la Thule di Tolomeo, che egli ritiene si trovi a ovest del meridiano delle Canarie in cui il geografo alessandrino la situava, deducendo da ciò che questi chiamava così le isole Faeroer, a quel tempo conosciute come Frislandia."
[33] In una lettera indirizzata alla nutrice del principe don Juan de Castiglia, citata da Ferdinando Colombo ma che non ci è pervenuta, Cristoforo afferma di non essere il "primo ammiraglio della famiglia".
[34] Si tratta di una delle isole Faeroer.
[35] Devil Hoof Willy si può tradurre con "Willy, zoccolo di diavolo". Il suo nome derivava, forse, dalla deformazione del suo piede, detta del "piede caprino".
[36] Corrisponde al nome di una sorta di "Messia" Azteco, atteso per secoli dalle antiche popolazioni del Sud America. Si veda a questo proposito Colin Wilson, Da Atlantide alla Sfinge, Piemme 1997, cap.V e Graham Hancock, Impronte degli Dei, Corbaccio 1996. Le varie terre erano, probabilmente, identificate sulla mappa con i nomi delle divinità che le proteggevano: Rex Olympii dovrebbe riferirsi a Zeus (o Giove), Rex Maris a Poseidone (o Nettuno).
[37] "Senza sole taccio". Si riferisce al fatto che la meridiana può segnalare l'ora soltanto nei giorni di sole. Si tratta di una frase che, ancora oggi, compare su moltissime meridiane d'Europa.
[38] Siracide 43, 1-3.5.
[39] Salmo 18, 2.5-7.
[40] Esodo 15, 17.
[41] Armand definisce "costa inglese" il territorio di Galway, nella parte occidentale dell'Irlanda.
[42] Dallo studio della biografia di Colombo si constata che effettivamente il viaggio verso le isole Faeroer non si era concluso lì. Scrive, infatti, Michel Lequenne: "Colombo afferma di essere andato al di là, senza precisare se a nord o a ovest, e in ogni caso senza toccare nuove terre. Al contrario, senza dubbio nello stesso viaggio, raggiunge l'Ovest dell'Irlanda: a Galway vede, in alcune barche alla deriva, delle persone morte, di statura e tipo sconosciuto, che egli identifica come cinesi (del Cathai), e che probabilmente erano invece dei lapponi o degli indiani.
[43] Finestra del profeta Giona. NdT.
[44] Si veda, a proposito, il Vangelo di Luca 8, 22-25.
[45] Si è tentato di risalire ai passi biblici cui il chierico si è ispirato. Ognuno è segnalato con una nota a pié pagina. Questo primo brano è tratto dal Salmo 88, 8.17-18.
[46] Salmo 42, 8.
[47] Salmo 69, 2-3.15-16.
[48] Salmo 89, 10.
[49] Giona 2, 3-4.6-8.
[50] Giobbe 38, 4-6.8-11.16.22-23.34-35.42,2.
[51] Geremia 50, 11.
[52] Esodo 15, 4-6.
[53] E' una delle isole dell'arcipelago di Madera.
[54] Gli studiosi ritengono che la Geografia di Tolomeo sia stata stampata la prima volta nel 1478. Armand sostiene, invece, che la copia da lui vista risalirebbe a "quattro anni prima". Da ciò si possono avanzare due ipotesi: o egli si riferisce all'anno 1482, per cui la copia risulterebbe correttamente datata 1478, oppure la stampa del testo tolemaico risalirebbe al 1477 e non all'anno successivo, come sostengono gli storici. Questa seconda ipotesi sembra la più corretta, data la presenza di un successivo riferimento alla morte di re Alfonso V di Portogallo, avvenuta nel 1481.
[55] Padre Antonio da Marchena fu effettivamente un fedele sostenitore delle idee di Cristoforo Colombo.
[56] Avvenuta nel 1481.
[57] Le proposte furono avanzate tra il 1483 e l'anno successivo.
[58] Si tratta del Capo di Buona Speranza, così chiamato dal re Giovanni II di Portogallo.
[59] Filippa Moniz Perestrello morì nel 1485.
[60] Secondo gli storici, Medinaceli.
[61] Armand non specifica la data in cui si riteneva fosse avvenuto il Diluvio Universale. D'altronde è vero che, nel 4000 a.C., il nord era indicato da Alpha Draconis. Si veda, a questo proposito, Colin Wilson, op.cit., p.77.
[62] Padre de Marchena commette un errore di 80 anni: se si fa risalire la fondazione di Roma al 754 a.C., il 1486 corrisponde al 2240 ab urbe condita; il ciclo della precessione, invece, dura 2160 anni.
[63] Ipotesi dovuta all'erronea credenza che il mondo fosse stato creato nel 3760 a.C.
[64] Nel 1488.
[65] Nel 1491.
[66] Si tratta del navigatore fiammingo Ferdinando Van Olmen.
[67] Il problema venne risolto soltanto nel 1823 da János Bolyai e Nikolaj Lobacevskij, che introdussero il concetto di geometria non-euclidea; Armand accenna ad un concetto relativo alla geometria ellittica.
[68] In realtà l'Era dei Pesci iniziò nel 170 a.C. Armand commette un errore poiché considera un ciclo equinoziale pari a 2240 anni, invece che 2160.
[69] La prossima Era del Leone durerà, invece, dal 14950 al 17110 d.C.
[70] La passata Era del Leone durò, invece, dal 10970 all'8810 a.C.
[71] Non tradotta dal testo originale.
[72] aprile 1492.
[73] Erronea credenza che anche Colombo aveva.
[74] Esiste un'unica testimonianza dell'esistenza del "timone di poppa" antecedente al XV secolo: si tratta di un bassorilievo che compare sulla facciata della cattedrale di Westminster, risalente al XII secolo.
[75] Della roccaforte sono rimaste due massicce torri che proteggono il porto; si veda, a proposito, "Il mistero di La Rochelle" in Angela Cerinotti, Storia e leggende dei Templari, Demetra 1997, pp.68-69.
[76] Figli cadetti delle più nobili famiglie, ricchi di nomi e titoli ma poveri di sostanze, spinti dal sogno di aggiungere al loro casato la proprietà di qualche nuova terra.
[77] Particolare riportato anche da Cesare De Lollis, Cristoforo Colombo nella leggenda e nella storia, Sansoni, 1969 (I ed. 1892), p.134.
[78] Sono le parole del Salmo 24.
[79] Il ritrovamento è documentato da Cesare De Lollis in ibid.
[80] Nella lingua degli indigeni significava "pietra".
[81] Il mito è riportato da D.Gifford e J.Sibbick in Warriors, Gods and Spirits from South American Mythology, 1983, p.54.
[82] Termine riportato in Alberto C. Ambesi, op.cit., p.45.
[83] Si riferisce sicuramente alle popolazioni maya e azteche.
[84] Per il fenomeno della deriva dei continenti, se la meridiana fu posta sulle isole Faeroer prima del 9000 a.C., all'epoca di Armand non poteva più fornire l'esatta direzione da seguire per raggiungere l'arcipelago rimasto dalla catastrofe. Potrebbe essere questo il motivo per cui, nel 1477, la spedizione di Colombo non approdò alle dieci isole.
[85] Tikal e Palenque sono due centri dell'America Centrale.
[86] Le misure corrispondono, pressappoco, a 89 x 20 x 9000 metri.
[87] Tuttoscienze n.785, allegato a La Stampa del 10 settembre 1997.
L'autore può essere contattato all'indirizzo marianotomatis@geocities.com
Mariano Tomatis ha realizzato la prima pagina italiana dedicata al Santo Graal
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Questa pagina è stata resa disponibile on-line il 20 settembre 1997